Sostenere di più i paesi colpiti da Ebola, parte della grande famiglia umana
E’ la prima volta da quando il virus è stato isolato negli anni Settanta che esso ha raggiunto delle capitali, la prima volta che interessa più stati contemporaneamente (e perfino, anche se episodicamente, il Nord del mondo). Ciò già basterebbe a innalzare il livello di allerta, ma soprattutto - ché il punto non è diffondere il panico - a spingere la comunità internazionale a un miglior coordinamento della risposta alla crisi.
Ma questo non avviene. I mass media occidentali ne parlano, ma per centrarsi sulla risposta a un possibile sconfinamento del virus, e non si assiste a grandi mobilitazioni, se si eccettua il nobile impegno di Médecins sans frontières, di Emergency o di altre associazioni senza scopo di lucro. Alla fine Ebola rischia di essere un rumore di fondo, facilmente eliminabile, l’ennesimo grido inascoltato che giunge dall’Africa.
L’Africa, la Guinea, la Sierra Leone, la Liberia sono lontane. Il mondo è distratto. Eppure i CDC di Atlanta informano che non sarebbe difficile bloccare la diffusione del virus se solo si
sostenessero i sistemi sanitari dell’Africa occidentale per una risposta più efficace. Non dovrebbe reagire con più energia il nostro mondo? Ogni giorno di ritardo significa il contagio di altre persone. A poche ore di aereo da noi.
Un diritto negato, quello della salute, per migliaia di uomini, donne, bambini. Un diritto che sta a noi rendere in effetti inalienabile. Un diritto che presuppone la fine di quel ragionare minimalista e rassegnato che tante volte abbiamo visto operare a proposito di Africa - ad esempio in materia di trattamento antiretrovirale dell’AIDS, e questo solo un decennio fa -, ma che mai vorremmo fosse applicato a noi o al nostro gruppo. E però siamo un’unica famiglia umana.
Giova ricordarlo. Rammentare che Giovanni XXIII scriveva nella ‘Pacem in Terris’ 50 anni fa: “I rapporti tra le comunità vanno vivificati dall’operante solidarietà attraverso le mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria. Il bene comune va concepito e promosso come una componente del bene comune dell’intera famiglia umana”.
C’è una responsabilità globale da promuovere e da far rivivere, una responsabilità euroafricana. Il prezzo da pagare, in mancanza di un sussulto del genere, di un’operante solidarietà, sarebbe molto alto. La vita di tanta gente in Africa occidentale - e, chissà, anche oltremare, se la pandemia dovesse assumere una svolta che ovviamente nessuno si augura -, ma anche il deperimento, lo svuotamento della nostra umanità in Occidente.
Un grande euroafricano, Albert Schweitzer, organista, medico, filantropo, un uomo che aveva sentito la ferita del ‘divide’ di possibilità mediche che separava l’Europa dall’Africa, un idealista che sarebbe riuscito a realizzare i propri sogni e a costruire un ponte di umanità e di cura tra l’Occidente allora coloniale e Lambaréné, in Gabon, diceva nel 1952, ricevendo a Oslo il Nobel per la Pace: “Rassegnandoci senza opporre resistenza ci rendiamo colpevoli di disumanità”. E continuava: “Se saremo animati all’umanitarismo saremo fedeli a noi stessi e capaci di creare cose nuove. Animati invece da uno spirito contrario saremo infedeli a noi stessi e capaci di tutti gli errori. [Ma ho] la certezza che lo spirito è capace, in questa nostra epoca, di dare vita ad una nuova mentalità, ad una mentalità etica”.
Siamo senz’altro in ritardo, rispetto agli auspici di Schweitzer, ma la prospettiva di una mentalità etica ci sfida ancora e ci chiama a dare il nostro contributo, a essere fedeli alla nostra umanità, a vincere la rassegnazione e l’impotenza, a creare cose nuove.
Francesco De Palma
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