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Sguardi: “La ragazza senza nome”, dei fratelli Dardenne

I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, registi belgi che possono piacere e non piacere, visto che fanno un cinema quasi “documentario”, a volte lento, a volte minimale, ma che sanno indubbiamente scavare nell’anima di un’Europa triste e confusa, ci regalano un piccolo capolavoro, “La ragazza senza nome”. 

Ambientato a Liegi, il film ha una protagonista, il giovane medico Jenny Davin (Adèle Haenel), e una deuteragonista che compare per pochissimi fotogrammi sulla pellicola, ma sarà da allora in poi sempre sullo sfondo, nel cuore e nei pensieri di una professionista che, pure, potrebbe concentrarsi sulla costruzione della propria carriera. E’ lei, la ragazza africana che suona fuori orario alla porta dello studio di Jenny (ma il medico non apre), la ragazza senza nome, la giovane donna che muore di morte violenta pochi minuti dopo aver tentato di incrociare il suo destino con quello della giovane dottoressa belga. La quale comincia a vivere dei sensi di colpa: e se le avesse aperto?
Non proseguirò, ovviamente, con la trama. Sottolineo invece il messaggio che scaturisce potente dal film, la metafora - che forse avremo già colto - di un’Europa indifferente, che stenta ad aprire la porta a chi sembra essere giunto in maniera poco opportuna, nel momento sbagliato. E se ci facessimo anche noi le domande di Jenny? Se ci chiedessimo di più quali conseguenze hanno il nostro fastidio e le nostre scelte? Se ci interrogassimo di più su chi sono coloro a cui non apriamo?
Questo è il percorso che segue la protagonista. Jenny si muove alla ricerca dell’identità della ragazza, per darle un nome, per scoprire la sua identità. E per ritrovare la propria.
Jenny è figura di un Belgio, di un’Europa, che non vogliono vivere l’oblio dell’indifferenza, “la grande malattia del nostro tempo”, come l’ha definita papa Francesco al meeting interreligioso di Assisi il 20 settembre scorso, quel “virus che paralizza, rende inerti e insensibili”.
Jenny esprime la rivolta del cuore contro quell’indifferenza, incarna la speranza in un sussulto di umanità che curi le altrui e le nostre ferite, che restituisca un nome a uomini e donne dispersi, un’identità umana a un continente che rischia il vuoto (si legga l’interessante “I rifugiati non sono affatto il problema. Lo è la crisi dell’identità europea”, di Natalie Nougayrède, apparso sul Guardian).
“La ragazza senza nome” ci spiega che una porta chiusa è una tragedia. Non solo per chi rimane fuori. Ma anche per chi pensa di essere al sicuro, nel tepore confortante di un piccolo spazio. Ci si augura che l’esame di coscienza di Jenny possa essere quello di tanti.

Francesco De Palma

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