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Esiste un’alternativa al «reddito di cittadinanza»?


Anche i bambini – mi racconta un’amica maestra – vogliono saper cos’è il reddito di cittadinanza. Potremmo dire loro, semplicemente, che è un aiuto economico che il governo (o lo stato) offre agli italiani che si trovano privi di reddito o che hanno redditi troppo bassi. Però – attenzione bambini! – occorre impegnarsi a cercare un lavoro e a frequentare corsi di formazione.
Non voglio entrare nel merito sui pro o i contro di tale provvedimento. Lo hanno fatto e continuano a farlo in tanti. Né ripetere – come abbiamo già fatto su questo blog – cos’é il REI (Reddito di Inclusione).
Tutti abbiamo a cuore il rilancio occupazionale. Nei decenni democristiani, in pieno stile keynesiano, si realizzava una politica di spesa in deficit. Spesso con un debito virtuale perché il denaro veniva ottenuto gratis dalla propria Banca centrale. Per i più poveri furono realizzate diverse misure finalizzate ad una redistribuzione della ricchezza per via fiscale. In altri termini, si prendeva ai ricchi e si dava ai poveri, aumentando le imposte sui redditi alti.


Com’è noto, oggi tante cose sono profondamente cambiate, soprattutto sul piano istituzionale. Considerata la facilità dei Governi nel finanziare spese in deficit con nuova moneta, nel momento di introduzione dell’euro si decise di negare ai Governi nazionali la possibilità di accesso diretto al rubinetto del denaro. Il governo della moneta fu affidato a una struttura indipendente che può prestare denaro a qualsiasi banca commerciale, ma neanche un centesimo agli Stati. Pertanto, i Governi non hanno altro modo di finanziare i propri deficit se non chiedendo prestiti al sistema bancario e finanziario privato. Con alcuni effetti importanti come quello dell’aggravio di spesa dei bilanci pubblici a causa degli interessi (in Italia rappresenta circa il 10% del gettito fiscale). Un’altra conseguenza è relativa al rapporto di potere fra Governi e mercati a causa della dipendenza dei primi dai secondi. Infatti, agli investitori interessa solo i propri investimenti. Per questo, continuamente vigilano sull’operato dei Governi per capire se stanno compiendo scelte che possono compromettere la loro capacità di pagamento attraverso quel famigerato canale comunicativo dello spread.
Inoltre, è mutata anche l’idea della povertà, della ricchezza e dell’equità. Fino a anni relativamente  recenti non era molto diffusa l’idea del self made man che si arricchisce esclusivamente per capacità propria. La ricchezza non veniva sempre intesa come esclusivo merito personale, ma sempre come il frutto di un’azione collettiva che vedeva l’apporto di diversi attori come la famiglia, i lavoratori, lo Stato stesso. E soprattutto la povertà non era mai stata concepita come una colpa personale, ma come una condizione determinatasi da cause come la povertà familiare, l’ignoranza, la malattia e quant’altro. L’articolo 3 della Costituzione indica il dovere di intervenire per colmare le differenze, come l’art. 54 di redistribuire la ricchezza, attraverso la progressività fiscale.


Detto ciò, come può il governo promuovere nuova occupazione? Un suggerimento assai interessante è arrivato recentemente dalle pagine di Avvenire con un articolo a firma di Francesco Gesualdi, in gioventù allievo di don Lorenzo Milani alla Scuola di Barbiana, insieme al fratello Michele recentemente scomparso. Invece di dare  nelle tasche dei disoccupati un’indennità di oltre 700 euro al mese, si potrebbero offrire «subito un lavoro retribuito a un milione di persone impiegandole in attività di pubblica utilità: difesa del territorio, recupero edilizio e stradale, potenziamento dei servizi alla persona”. Immancabilmente ci si chiederà con quali risorse? «Converrebbe recuperare – prosegue Gesualdi - la proposta elaborata da un gruppo di studiosi (Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini, Giovanni Zibordi) e dal compianto sociologo Luciano Gallino di sopperire alla perduta sovranità monetaria in ambito euro, con la creazione di una “moneta complementare” sotto forma di certificati di credito fiscale. In pratica si tratterebbe di pagamenti da parte dello Stato con dei “pagherò” che al momento della scadenza vengono quietanziati non con la restituzione di euro, ma accettandoli come pagamento delle imposte dovute. E proprio perché circolanti con la garanzia che alla fine possono essere utilizzati per il pagamento delle tasse, nessuno avrebbe problema ad accettare i certificati di credito fiscale come mezzi di pagamento al pari degli euro, pur non essendo convertibili in euro, mettendo di fatto in moto quell’effetto di moltiplicatore tipico degli investimenti pubblici che oggi tutti invocano. Un modo emergenziale per recuperare, seppur in modo transitorio, un minimo di sana sovranità monetaria finalizzata al rilancio dell’occupazione, senza contravvenire alle regole europee».

Antonio Salvati

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