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La città che cura. La malattia mentale, un’opportunità per una cura umana


A 40 anni dalla legge 180 si riparla della malattia mentale come di una colpa e della riapertura dei manicomi come una soluzione. Una ricerca di qualche anno fa dimostrava che meno dell'1% del pubblico intervistato conosceva che cosa fosse realmente il disturbo  mentale, quali sono le opzioni di trattamento e quant’altro. E’ necessario, pertanto, “rievocare” i 40 anni della legge 180.

Il prossimo 13 Novembre 2018 si svolgerà presso la Sede della Regione Lazio a Roma un Seminario di studio sulla salute mentale  dal titolo “ La Città che Cura”, aperto anche a un pubblico non specializzato e organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Asl Roma 4 e con la Regione Lazio. Il Seminario vuole rappresentare una memoria a 40 anni dall’entrata in vigore della  legge 180 che ha rappresentato un punto di non ritorno per l’acquisizione di  diritti fondamentali per tante persone con disturbi mentali.  In Italia, la legge di riforma del 1978 ha dato avvio a un processo di superamento degli ospedali psichiatrici, con la creazione di servizi centrati sulla comunità che permettono ai pazienti di condurre la loro vita in contesti sociali normali. La legge 180 – promulgata il 13 maggio 1978, a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere di Moro - non stabilì la scomparsa del disagio psichico. Fu sancito che in Italia non si sarebbe dovuto rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione.  In un’intervista del 1968 Sergio Zavoli chiese a Franco Basaglia , il medico veneziano protagonista di questa rivoluzione, se fosse più interessato al malato o alla malattia, e Basaglia calcò la voce su un avverbio: “Indubbiamente al malato”.
Il malato di mente fino al 1978 non era un cittadino a pieno titolo. La Costituzione è valida per tutti ma non per chi è internato, privato di qualsiasi diritto. Per cambiare le cose, deve avvenire qualcosa di straordinario il 13 maggio di quell’anno, quando in una commissione ministeriale presieduta da una giovane Tina Anselmi nasce una legge grazie a uomini e donne illuminati, che si interrogano: i matti, questi centomila reclusi in novanta manicomi, sono o non sono cittadini italiani? Vige anche per loro la Costituzione repubblicana del 1948? La loro risposta è sì e da lì comincia la scommessa spigolosa del nostro Paese, una strada tutta in salita.
In una delle sue Conferenze tenute in Brasile nel corso del 1979  lo stesso  Basaglia così affermava: “... la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent'anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un'azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare. È quel che ho detto già mille volte: nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, noi non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare.
I partecipanti al seminario, provenienti da ambiti e percorsi diversi,  condividono  la visione del Mental Health  Action Plan dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per gli anni 2013-2020, ossia: “un mondo in cui la salute mentale sia valorizzata, promossa e protetta, nel quale i disturbi mentali siano prevenuti e le persone affette da questi disturbi siano in grado di esercitare appieno tutti i diritti umani e di accedere in tempo utile a servizi di cura sanitari e sociali di alta qualità e culturalmente appropriati che promuovano la recovery, affinché possano ottenere il più alto livello possibile di salute e di partecipare pienamente alla vita sociale e lavorativa, libere da stigma e discriminazione”.
Evidentemente c’è ancora un lungo percorso da compiere per dare compiutezza a questa visione e divenga realtà nella vita di tante persone in Italia e nel mondo che soffrono ancora la solitudine e la discriminazione a causa del loro disagio mentale. La realtà si può cambiare a partire dalle buone pratiche, lavorando insieme,  in rete. Ognuno con i suoi strumenti e le sue competenze. Le motivazioni del seminario prendono spunto da un’esperienza positiva che la Comunità di Sant’Egidio ha dato vita nella città di Civitavecchia dove ha realizzato, in collaborazione con la ASL Roma 4 e con il Comune,  una rete di convivenze protette per persone con disturbo mentale e disagio sociale in un progetto di inclusione a costi sostenibili. Il lavoro di Sant’Egidio per la salute mentale nasce da più lontano quando, fin dall’inizio,  si è confrontata con il disagio psichico, tratto comune a tante situazioni di povertà: anziani soli a casa o in istituto, senza fissa dimora, per i quali la malattia mentale a volte è causa, a volte conseguenza della vita per la strada; disabili; tossicodipendenti, alcolisti. Una dimensione del disagio trasversale: può, infatti, colpire tutti, a tutte le età e in condizioni sociali differenti. Questo lavoro è arrivato fino all’Albania dove sant’Egidio, in collaborazione con il Ministero della Sanità e l’OMS, è riuscita a far chiudere il vecchio reparto cronici dell’Ospedale Psichiatrico per realizzare le case famiglia.


A Civitavecchia Sant’Egidio ha realizzato una rete di appartamenti protetti, che offrono un ambiente amichevole e non medicalizzato, per persone con disturbo mentale che avevano perso il legame con la famiglia di origine e che vivevano o per la strada o in ex cliniche psichiatriche. Le convivenze, organizzate in piccoli nuclei (in media quattro persone per convivenza) sono inserite nel tessuto cittadino, in zone centrali o vicine al centro, prossime ai servizi commerciali ed al Centro di Salute Mentale, che gli ospiti frequentano per ricevere le cure farmacologiche, per colloqui psicologici  o incontri di gruppo, come quelli multifamiliari. L’obiettivo principale di questo lavoro  è quello di valorizzare le persone con disagio psichico includendole e reinserendole in una vita sociale attiva con l'idea che ognuno rappresenta una risorsa per gli altri. Infatti, nella vita della Comunità di Sant'Egidio ogni giorno le persone che convivono con la malattia mentale  svolgono attività sia dentro che fuori casa insieme agli altri volontari che non soffrono questo disagio: ci si mischia e ci si integra e questo forma una nuova famiglia. Un ambito familiare dove non esiste più la barriera tra chi assiste e chi è assistito ma, come disse Papa Francesco (in un discorso durante una visita alla Comunità di Sant’Egidio) il protagonista è l’abbraccio. Tratto caratteristico di Sant’Egidio è quello di moltiplicare i “luoghi di inclusione”, dove si stabiliscono relazioni amicali e si lavora insieme.


La Città che Cura vuole richiamare l’idea che ciascuno può occuparsi di salute mentale, magari aiutando, sostenendo, integrando nei vari contesti della vita, dal condominio al quartiere, dal mercato ai luoghi di lavoro,  le persone più fragili. Con la consapevolezza che il disagio e la malattia non possono mai trovare giovamento dalla separazione e dalla solitudine. Al contrario, possono rappresentare una opportunità di miglioramento della società se accettate nella vita di ogni giorno: solo così si costruisce una vera città dove le persone possano realizzarsi riscoprendo il senso del “noi”.  Tutti abbiamo bisogno di essere coperti dell’affetto, della cura e della vicinanza, soprattutto quando siamo negli ultimi tempi della nostra vita. Questa è la vera medicina, direbbe Mons. VincenzoPaglia.  «Lo sviluppo della tecnica ci ha convinti che la medicina è onnipotente. Se non guariscono, gli altri si possono scartare. C’è una tentazione diabolica con l’identificare il prendersi cura con la guarigione». Ma – ha osservato recentemente mons. Paglia – «la medicina deve prendersi cura di tutta la persona umana, anche quando non si può guarire». «È questo uno dei punti fondamentali da riscoprire in un mondo che rischia di essere un’appendice della tecnica».

Massimo Magnano
Antonio Salvati

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