Il Premio Nobel per la Pace chiama a guardare al dramma della Siria
Lo scorso 10 dicembre il municipio di Oslo, un edificio funzionalista, un po’ tozzo, all’apparenza dimesso, ha ospitato uno dei più importanti avvenimenti mondiali, la consegna del Premio Nobel per la Pace all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, l’OPAC.
Fondata nel 1997 per dare attuazione al Trattato di interdizione all’uso della armi chimiche, l’OPAC ha raggiunto quest’anno un rilevante risultato: l’ingresso della Siria tra gli stati aderenti e lo smantellamento delle armi chimiche in possesso del regime di Bashar al-Asad.
Il prestigioso riconoscimento perpetua un lascito ormai più che secolare, l’impegno a lavorare per la pace e l’unità del genere umano.
Proprio nei giorni in cui un altro laureato, Nelson Mandela, premio Nobel nel 1993, ci lascia, l’elenco dei benemeriti della pace si allunga, chiama a riflettere e a lavorare perché la profezia di Isaia possa trovare un più largo compimento. Se all’alba della storia il conflitto tra fratelli è stato quanto di più normale si potesse pensare (Caino e Abele - "l’uccisione di Abele da parte di Caino attesta il rigetto della vocazione ad essere fratelli" scrive papa Francesco per il Messaggio in vista della Giornata Mondiale della Pace 2014 -, Romolo e Remo …), una storia più adulta e più matura celebra chi rinfodera la spada. E si tratta, quest’anno, della spada delle armi chimiche.
“Per 15 anni abbiamo fatto il nostro dovere contribuendo alla pace del mondo. Le ultime settimane hanno dato ulteriore impulso alla nostra missione. Accetto con umiltà il Premio Nobel per la Pace e con voi mi impegno a continuare a lavorare con immutata determinazione”: queste le prime parole di ringraziamento del Direttore generale dell’OPAC, il turco Ahmet Uzumcu. E nel loro richiamo alle “ultime settimane” ci ricordano l’impegno profuso a settembre da papa Francesco, quella straordinaria mobilitazione di cuori e di preghiere che aveva finito per distogliere il mondo dal suo procedere verso un’avventura bellica incerta e
pericolosissima, che aveva aperto nuove possibilità e qualche spiraglio di pace.
La consegna del Premio Nobel per la Pace è oggi l’occasione per ricordare la Siria. Per continuare a lavorare perché il paese si rialzi da quell’abisso di male in cui è caduto, perché cessi la violenza, si ricominci a dialogare, si costruisca un sistema umano e duraturo di garanzie e di pace.
Non possiamo dimenticare la Siria. Lo dobbiamo ai rapiti di questi mesi, quelli di cui conosciamo il nome, vescovi, sacerdoti, religiose, cristiani di varie confessioni, uomini e donne di pace che hanno testimoniato l’amore per i siriani a prescindere da ogni differenza, confessionale e non, ovvero i vescovi di Aleppo, Mar Gregorios e Paul Yaziji, i preti Paolo Dall’Oglio, Maer Mahfuz e Michel Kayyal, le monache del convento di santa Tecla a Maalula. Ma tutto un popolo è prigioniero di una situazione apparentemente senza vie d’uscita, ostaggio della paura e della violenza.
La Siria è a pezzi. Almeno 120.000 i morti, quattro milioni i profughi interni, più di due milioni le persone che hanno lasciato il paese per il Libano, la Turchia, la Giordania. La cerimonia di Oslo deve riaccendere i riflettori su una tragedia cui deve essere posta fine.
Siamo chiamati a non partecipare a quella globalizzazione dell’indifferenza dalla quale papa Bergoglio ci mette in guardia: “Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare
compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete”, si legge nella Evangelii Gaudium.
La speranza si appunta sulla Conferenza di Ginevra, che dovrà comporre forze siriane differenti, nonché diversi interessi internazionali. È un'occasione che non può essere perduta. Ma è l’opinione pubblica mondiale che deve premere affinché chi ha la il potere di giungere a un accordo si muova in quella direzione. Il Premio Nobel per la Pace non può che essere consegnato a qualcuno, ma è l’umanità intera che deve condividerne lo spirito e farsi promotrice di un grande ed efficace sforzo di pace.
Francesco De Palma
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