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L’anniversario del genocidio in Ruanda, la Chiesa e la sfida della riconciliazione


Nel ricevere i Vescovi Ruandesi nella loro Visita ad Limina, Papa Francesco ha sottolineato come a 20 anni dal tragico genocidio nel paese africano, la priorità della Chiesa rimane la riconciliazione e la guarigione delle ferite profonde che il massacro del 1994 in cui morirono più di un milione di persone ha inferto nell’anima di tutto un popolo. 
Ma cosa accadde in quei 100 terribili giorni? Il Ruanda è uno dei più piccoli paesi africani, 26 mila chilometri quadrati, un territorio poco più grande della Sicilia, in cui vivevano all’epoca circa otto milioni di abitanti. La sua storia è complessa, e la divisione etnica tra Hutu, Tutsi e Twa, il frutto di conflitti sociali precedenti al dominio coloniale europeo, ma che lo stesso colonialismo tedesco prima, belga poi, non contribuì ad attenuare, anzi accentuò per un mero calcolo politico.
Quello del 1994 non fu altro quindi che l’ultimo atto di una storia dolorosa iniziata nel 1959 con l’indipendenza del paese, che mettendo al potere la maggioranza hutu, portò ad una prima ondata di massacri, ripetutisi poi ancora nel 1975 e nel 1984 e che spinsero la maggioranza dell’etnia Tutsi ad emigrare nei paesi vicini Uganda, Tanzania e Congo. Quando, nella notte tra il 6 e il 7 aprile del 1994, fu abbattuto nel cielo di Kigali l’aereo con a bordo il presidente Juvénal Habyarimana e l’omologo burundese Cyprien Ntaryamira, di ritorno da Arusha, dove erano iniziati colloqui di pace che avrebbero dovuto riportare i Tutsi nel paese, questo fu interpretato come il segnale che diede inizio ad una sistematica, quanto brutale, eliminazione su base etnica e politica dei nemici del regime. Esercito, polizia e le famigerate milizie Intheramwe cominciarono a cercare casa per casa  e attraverso i posti di blocco disseminati in tutto il paese, i Tutsi, identificati dai documenti di identità, oppure da una sommaria analisi dei tratti fisici che distinguerebbero l’etnia: corpo slanciato e profilo fine del volto. Il piano del genocidio si avvaleva di vere e proprie liste di proscrizione e di una efficace sistema di propaganda dell’odio che, soprattutto attraverso la Radio “Milles Collines”, incitava la popolazione a partecipare al massacro e a riempire le fosse. Tutto avvenne davanti alle telecamere del mondo intero, ma nella quasi totale assenza della comunità internazionale e delle sue istituzioni (le insufficienti forze dell’ONU non furono mai messe in  grado di intervenire né aumentate per fermare le uccisioni).
Il genocidio ruandese coniugò la meticolosità dell’attuazione di un piano prestabilito con lo scatenamento di un odio popolare che coinvolse gran parte della popolazione. Le famiglie si divisero al suo interno, i vicini di casa con cui fino al giorno prima si intrattenevano cordiali rapporti divennero potenziali nemici e spesso efficaci assassini. Anche la Chiesa e le comunità religiose non furono risparmiate dalla follia dell’odio etnico che spaccò il paese, e accanto a chi collaborò allo sterminio, ci furono molti sacerdoti, religiosi e religiose, missionari che si adoperarono per salvare il maggior numero possibile dei superstiti. E’ il caso di Padre Vito Misuraca, sacerdote italiano “fidei donum” che, assieme al console italiano Pierantonio Costa, salvò più di 1200 bambini isolati negli orfanotrofi di Nyanza e di Butare, o di padre Boniface Senyenzi che scelse di rimanere con i suoi fedeli, più di 1100, che avevano trovato rifugio nella sua parrocchia Sant Pierre di Kibuye data alle fiamme dalle milizie hutu. Il tributo di sangue della Chiesa cattolica in Ruanda fu altissimo, basti pensare ai 3 vescovi e ai 107 sacerdoti che persero la vita in quei giorni.
Quel genocidio in realtà è stato l’inizio di una lunga stagione di conflitti e di instabilità che ancora permangono in tutta la regione dei Grandi Laghi. Niente e nessuno fu risparmiato dall’odio e oggi chi visita il Memoriale del Genocidio a Kigali, può ripercorrere passo dopo passo quei terribili eventi. E significativamente il memoriale di Kigali, non conserva solo il ricordo del genocidio ruandese ma accoglie la memoria di tutti i genocidi del ‘900, dal massacro degli Armeni, alla Shoà, al genocidio cambogiano, come una litania di sangue che ha attraversato tutto il XX secolo che si conclude proprio con il genocidio ruandese.
Ciò che accadde in Ruanda nel 1994, non fu un unicum della storia, ma la tragica realizzazione che dimostra fin dove può arrivare la follia omicida dell’uomo, quando si alimenta e si scatena la tempesta dell’odio. Oggi il Ruanda è un paese in crescita, con più di 11 milioni di abitanti. Molto è cambiato e le nuove generazioni, nate dopo il ’94 aspirano a modelli di vita di tipo occidentale e desiderano affrancarsi dalla memoria dolorosa del passato. Sono figli della globalizzazione, in uno dei paesi africani che è al primo posto nella diffusione di internet con i cavi a fibre ottiche che arrivano in tutto il paese. Molto è stato fatto, soprattutto le condizioni economiche del paese hanno avuto un notevole sviluppo, ma la sfida della riconciliazione rimane prioritaria. La scelta della convivenza non ha alternativa, ma deve pensarsi non come obbligo, ma come chance per costruire un futuro comune. Le ferite di tanto odio sono lunghe a rimarginarsi. La cura di queste ferite richiede pazienza, ascolto, comprensione, e di applicare quella formula così semplice ed efficace che fu l’intuizione spirituale del Beato Giovanni XXIII: “cercare più quello che unisce che ciò che divide”. E’ la sfida dei cristiani in Ruanda, ma a partire dalla memoria del Ruanda è la proposta che i cristiani di questo tempo fanno al mondo.

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