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Mons. Romero, testimone di fronte a due epoche

La firma apposta da papa Francesco al decreto sul martirio riguardante Oscar Arnulfo Romero segna una tappa di grande importanza nella storia della causa dell’arcivescovo
ucciso nel marzo 1980. Non a caso è sul riconoscimento del martirio che si erano appuntate per decenni le resistenze di tanta parte dell’episcopato latinoamericano, quelle resistenze che hanno determinato la lentezza del processo e il ritardo di una proclamazione che non solo i salvadoregni, ma milioni di cristiani e di non cristiani nel mondo hanno atteso con impazienza.
E’ noto come l’arcivescovo di San Salvador sia stato vittima della polarizzazione violenta che ha scosso il paese negli anni ’70 e ‘80, della volontà della repressione di colpire contadini, membri delle organizzazioni sindacali, delle comunità di base, del clero, chiunque fosse accusato di favorire la guerriglia. Romero assistette a una progressiva escalation della violenza: quella repressiva del governo militare e quella eversiva dei gruppi di guerriglia rivoluzionaria. Di fronte a questo clima di violenza e persecuzione, egli reagisce da vescovo e chiede con forza giustizia e rispetto dei diritti umani. La sua voce toccava i cuori dei salvadoregni, le sue denunce durante le omelie domenicali erano ascoltate da tutti. Quella voce doveva essere messa a tacere. Di qui la decisione di armare la mano del sicario che il 24 marzo del 1980 avrebbe sparato a Romero mentre questi celebrava la messa nella cappella dell’ospedaletto nel cui compound viveva. 

Se c’è una banalità del male, c’è anche, tante volte, una stupidità del male. Che colpisce un vescovo mentre celebra la messa, poco prima della consacrazione. E’ quello che era accaduto ad altri pastori che lottavano per la libertà della Chiesa, per la difesa dei diritti dei più deboli. E stupisce che di fronte a un tale scenario si possa aver negato il martirio, si possa aver combattuto una tenace battaglia per dire che le motivazioni di quel vescovo ucciso mentre offriva il supremo sacrificio erano state unicamente politiche.
C’è stato bisogno di tempo, si è avuto bisogno di un lungo processo, durante li quale si è alla fine dimostrato, come ha detto alcuni giorni fa in conferenza stampa il postulatore della causa di Romero, mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, “che l’odio profondo della repressione oligarchica che armò la mano dell'assassino di Romero era motivato dall’amore mostrato dal vescovo per la giustizia e la difesa dei poveri, degli indifesi e degli oppressi. Che Romero pagava non una partecipazione politica in un contesto violento di guerra civile, ma un’opzione totalmente evangelica. Che Romero è stato un vero pastore che ha dato la vita per il suo gregge e subì la morte per coerenza con la fede, con la dottrina e il magistero della Chiesa. La sua disposizione a dare la vita si è compiuta all'altare della mensa eucaristica”.
Romero è dunque proclamato martire ben 35 anni dopo il suo assassinio. Un tempo lungo, sul quale conviene però interrogarsi. 
Il passare degli anni non ha diminuito la forza del suo esempio di “buon pastore” che continua a restare vicino al gregge mentre uomini armati ne fanno strage. Anzi, ha finito per dare spessore e profondità alla sua testimonianza. “È un fatto provvidenziale”, ha detto sempre mons. Paglia, “che questa beatificazione giunga con il pontificato del primo papa latinoamericano”, che essa avvenga “in un momento di grande travaglio storico, rappresentando una fede che non resta nei principi, che sceglie di sporcarsi le mani coi più poveri, per far capire che Dio è dalla loro parte”. 

In un contesto quale quello attuale, tanto diverso dallo scenario da guerra fredda degli anni ’70 e ’80, così post-ideologico, così “liquido”, il martirio di mons. Romero continua a parlare, a nome di un’America Latina non più pedina stravolta dai giochi di potere delle due superpotenze, ma ormai capace di un suo protagonismo, di una sua proposta al mondo. La testimonianza del vescovo ucciso 35 anni fa, si fa rigetto e condanna delle polarizzazioni violente, ma anche di tutti quegli atteggiamenti che relegano i poveri sullo sfondo della storia, di ogni scelta culturale elitaria che dimentica i popoli, di ogni idolatria del potere e del denaro a scapito della sacralità della vita umana.

Francesco De Palma

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