"Dal diritto allo studio al diritto all'apprendimento". 'No' a meno scuola per DSA e BES ...
Avendone giĆ trattato su questo blog alcuni mesi fa, mi permetto di postare il mio intervento al convegno svoltosi ieri, 26 ottobre, nella splendida cornice della sala Zuccari a Palazzo Giustiniani, su "Dal diritto allo studio al diritto all'apprendimento". Il convegno, organizzato dall'INPEF, ha visto la partecipazione di esponenti del mondo istituzionale, pedagogico, scolastico. Obiettivo quello di riaffermare il primato pedagogico su ogni medicalizzazione, contro ogni filiera diagnostica.
Buonasera a tutti i presenti.
Ringrazio la dr.ssa Vincenza Palmieri, che ha voluto prendessi la parola a questo convegno, e in generale lāI.N.PE.F. per il lavoro che svolge, le battaglie che porta avanti.
Insegno in un professionale alberghiero, il āGiobertiā, a Trastevere, e intervengo oggi non come chi ha particolari competenze pedagogiche o psicologiche, bensƬ come docente di italiano e storia, appassionato del proprio lavoro, degli alunni che incontra ogni giorno.
In una lettera del 1966 don Milani svelava a uno dei suoi ragazzi il ācuoreā di āLettera a una professoressaā. āSarĆ ā - cosƬ scriveva - āun canto di fede nella scuolaā. Nel mio piccolo vorrei dire anchāio tutta la mia fede nella scuola.
Non tutti hanno tale fede. Viviamo una medicalizzazione esasperata delle difficoltà di apprendimento. Stiamo trasformando ostacoli che potrebbero essere rimossi o aggirati in blocchi che paralizzano discenti e docenti, in gabbie che imprigionano le potenzialità dei ragazzi, che avviliscono quella resilienza di fronte ai casi della vita che ognuno possiede, a prescindere dalle diagnosi che ci accompagnano. Stiamo dimettendo un compito e una missione. Non abbiamo più fede nella nostra stessa azione educativa.
Nella prassi concreta della vita scolastica finiamo per dare agli alunni con DSA o BES meno scuola. E non più scuola, come dovremmo. Nel gorgo delle misure compensative e dispensative finiamo per inabissare le nostre e le altrui competenze. Nella paura di un ricorso finiamo per non credere al meraviglioso potere che la società ha posto nelle nostre mani. Il potere di educare, di tirar fuori. Il potere di istruire, di costruire dentro.
Raffaele Iosa, giĆ direttore didattico, ha scritto: āLa rincorsa alla ācertificazioneā di presunte difficoltĆ di apprendimento [ĆØ] una ādifesaā dei genitori davanti a una scuola competitiva. Ma diventa anche una scusante per gli insegnanti (āAh, allora io non ho colpe didatticheā). La āGrande Malattiaāā - ĆØ cosƬ che Iosa definisce quel che io ho chiamato medicalizzazione esasperata - āsemplifica molte cose, tutte brutte. Per esempio riduce la responsabilitĆ degli adulti, abbassa la fiducia verso i ragazzi (āSe non ce la fanno non ĆØ colpa loroā), deresponsabilizza la relazione adulto-minore, prefigura cronicari scolastici di finta integrazione, perchĆ© il āsintomoā diventa barriera e specialismoā.
Fin qui Iosa. In unāanalisi che a me, che vedo queste cose tutti i giorni a scuola, sembra del tutto condivisibile. Meglio una tecnica anestetizzante che una pedagogia vera! Meglio una metodologia da pensiero unico che lo sforzo di dar vita a una didattica efficace! Meglio un finto successo incapace di iniettare alcuna autostima che uno sforzo paziente e tenace, ricco di cadute - perchĆ© no? -, ma anche di progressi reali! Questo il risultato della medicalizzazione che sta infettando il mondo scolastico.
SƬ, ĆØ vero, i dislessici esistono, ed esistono le difficoltĆ di apprendimento. Ma esiste anche il sistema formativo. Esistiamo noi insegnanti, che con la nostra professionalitĆ e fantasia siamo chiamati ad affrontare il problema e non a metterlo sotto il tappeto di una diagnosi. Esiste lāart. 3 della Costituzione, col suo dettato: āĆ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli [ā¦] che [ā¦] impediscono il pieno sviluppo della persona umanaā. Non possiamo accettare che una difficoltĆ diventi una condanna. Non possiamo procedere per ādispenseā sempre più frequenti: āIl metodo dispensativo ĆØ il più grosso danno che possiamo fare ai ragazzi. PerchĆ© imped[isce] loro il diritto allāapprendimento, diritto inalienabile dellāessere umano, limando pezzi che non si recupereranno forse mai piùā, ha detto la qui presente Vincenza Palmieri.
Ecco, parliamo di misure dispensative. Sono una grande tentazione per il docente che non ha fede nella scuola. Eā facile che un āprofā, partito per dispensare gli alunni da alcune, particolari, modalitĆ didattiche o operative, giunga a ritenerli dispensati da conoscenze e competenze cui potrebbero accedere con uno sforzo in più; ovvero a considerarsi dispensato egli stesso da un impegno straordinario. Ancor più frequente ĆØ il caso del genitore che, rassicurato da un medico o da unāassociazione, chieda o pretenda che il proprio figlio sia dispensato non solo da quanto la legge prevede, bensƬ da tutto ciò che significa applicazione, fatica, memorizzazione. Il possibile esito del meccanismo dispensativo ĆØ la creazione di un recinto di autorizzati a non imparare, lāassoluzione ex ante di un gruppo di abilitati a non insegnare. Eā inquietante vedere come, di fronte a una situazione problematica, un Consiglio di Classe decida allāunanimitĆ di considerare lāalunno X un BES, ma non di interrogarsi su un determinato percorso di recupero, di accompagnamento. Il risultato ĆØ in primis incoraggiare processi di stigmatizzazione o di autostigmatizzazione (e lo stigma ĆØ tale anche se certificato da un medico ASL); in secundis spalancare autostrade a chi scelga lāinazione o la rassegnazione.
Io e tanti altri colleghi che vogliono fare più scuola e non meno scuola, che vogliono sciogliere anchāessi il loro canto di fede nella scuola, ci rifiutiamo di renderci corresponsabili di una progressiva disabilizzazione di chi ha bisogni educativi speciali. Quei bisogni sono speciali. Non minori! Io e tanti altri colleghi intendiamo sottrarci al gioco che fa di ogni disturbo dellāapprendimento una sanzione dellāimpossibilitĆ di apprendimento.
Non possiamo abdicare alla grandezza e alla bellezza del nostro lavoro. Sogniamo una scuola che sostenga tutti e promuova lāemancipazione di tutti, senza categorizzare, stigmatizzare, ridimensionare nessuno. Una scuola che, con la creativitĆ e la pazienza che ognuno di noi ha avuto in sorte, con lāesperienza e la passione che ognuno di noi ha maturato, costruisca un percorso di crescita, e non un tran-tran burocratico grigio e rassegnato che condanni un ragazzo o una ragazza a una mediocritĆ culturale che non si meritano, e in cui nessun estensore di certificazione avrebbe immaginato di relegarli. Solo un continuo mettersi in gioco ci permetterĆ di motivare e spronare, allettare e forzare, accompagnare e sperare, dando vita a un intervento pedagogico che aiuti gli alunni ad affrontare gli ostacoli e a superarli, che li rafforzi come soggetti autonomi.
Il conformismo ĆØ tendenza forte della vita adulta. Eā in auge anche nella scuola italiana. Ma tutto il nostro spirito di educatori - vorrei dire di sacerdoti della religione della scuola - si ribella a questo triste e amaro conformismo medicalizzato. Lo sguardo diagnostico tende a vedere i sintomi, quel che non va, mentre quello pedagogico tende ad evidenziare le potenzialitĆ dellāalunno, quel che potrebbe andare. Oso dire: quel che deve andare. E che andrĆ ; grazie alla mia azione di uomo e di professionista, fatta di stimoli, di reazioni, finanche di arrabbiature. Non dobbiamo fare una diagnosi! Dobbiamo proporre una cura!
Ho aperto con Barbiana, chiudo con quella stessa esperienza. Antonio Vigilante, insegnante anche lui, ha scritto: āLettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto montanari quei ragazzi sarebbero stati considerati studenti BES, si sarebbe fatto per loro un PDP, sarebbero stati promossi. Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fareā.
Ne sono convinto anchāio. PerchĆ© per lui la scuola aveva in sĆ© qualcosa di sacro. E guai a chi si prende gioco del sacro. Guai a chi dĆ agli svantaggiati una scuola meno impegnativa, più digeribile, diluita e irriconoscibile. La scuola deve innalzare di livello, deve far scalare una montagna: āElevarli, appassionarli a qualcosa di altoā; āLi faccio vibrare dalla mattina alla seraā; āI miei ragazzi e io ci sforziamo quotidianamente di vivere in unāelevata atmosfera di problematica morale, politica, culturaleā. Altro che mappe concettuali! Ri-mappiamo noi, piuttosto, una nuova concezione del nostro lavoro. PerchĆ© - e cito lāultima frase di don Milani -, āun educatore sa vedere i segni di speranza dove gli altri non vedonoā.
Se ĆØ vero, come ha detto Malala che āun maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondoā, bene, si tratta di crederci. Davvero. Credere che possiamo cambiare il mondo con le sue difficoltĆ ; credere che possiamo cambiare il mondo di ogni bambino, ragazzo, giovane. Anche se DSA; anche se BES.
Francesco De Palma
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