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"Il monopolio della sofferenza". Una lettura dell'ultimo film di Ziad Doureri.

"Non è un film sul passato, ma sul presente. Su un mondo che ormai è polarizzato, libanesizzato, israelizzato, palestinizzato. L’accoglienza (del film, n.d.r.) all’estero, in Occidente, è stata sorprendente. Mi sono chiesto, perché in tanti, non arabi né tantomeno libanesi, si identificano? Perché il mondo sta vivendo cambiamenti complessi e forti che noi forse abbiamo vissuto prima di altri. Quella rabbia, quel dolore è arrivato in tutto il mondo, temo. Penso all’ultima rassegna in cui sono stato, al San Francisco Film Festival. C’erano un odio, una rabbia così grande e divisiva verso l’attuale governo USA e verso chi l’ha eletto che mi hanno fatto paura. Eravamo davanti a un caffè e mi dicevano tutti quanto si identificassero con il mio film, quanto si sentissero in un paese diviso. Io volevo solo raccontare una storia, in parte la mia storia. Solo dopo ho scoperto che era universale, e non lo immaginavo. Non con questa forza".
Con queste parole il regista libanese Ziad Doureri, presenta il suo ultimo soprendente lavoro: "L'insulto" ("L'insulte", Libano, Francia, USA, Belgio, Cipro, 2017).
Il film, meritatamente candidato all'Oscar 2018 per il Libano nella sezione film stranieri, nasce da un reale evento autobiografico del regista: "Un incidente stupido tra me e un operaio, degenerato all’improvviso in qualcosa di più grande, doloroso. Lì è finita in uno scambio di insulti e parolacce; rimasi ossessionato dall’ipotesi che la lite potesse facilmente divenire un affare nazionale se avessimo continuato su quei binari. Ne parlai con mia moglie, ora ex, che era presente e contribuì a far sì che tornassimo a più miti consigli. Mi scusai col suo capo per il mio comportamento, ma il boss lo licenziò. Allora presi le sue difese: da nemici divenimmo alleati e allora capii. Capii subito che era la premessa, la miccia di qualcosa di importante".
E "qualcosa di importante" è scaturito veramente da questo episodio: una storia che, come hanno scritto in molti, arriva in modo diretto al cuore, alle coscienze e che parla di Medio Oriente (ma non solo) "più di cento libri o altrettante conferenze storiche". 
Sono vari i temi che si possono trovare nel film: la complessità del Medio Oriente vista dalla prospettiva del Libano, un paese dall'indentità multiforme che, con fatica, sta ritrovando la strada di una non facile convivenza tra le sue varie componenti etniche e religiose; il dramma di una guerra civile (quella scoppiata nel 1975 e durata fino al 1990) le cui ferite sembrano ancora vive nella memoria dei più anziani; il conflitto tra Israele e Palestina e il ruolo che ha avuto nel creare instabilità nel complesso mosaico etnico libanese; il problema della convivenza tra mondi diversi; la tensione generazionale tra chi, più giovane, vuole guardare al futuro gettandosi alle spalle i fantasmi del passato e chi, più avanti negli anni, fatica a liberarsi dagli antichi rancori derivanti dalle ferite mai completamente rimarginate.
Ma forse, aldilà di tutto, la vera chiave di lettura di questo splendido film è il fatto che, in un mondo complesso e conflittuale, spesso governato da maschi rissosi e vanitosi (sopraffatti da un orgoglioso e stupido senso dell'onore, quindi incapaci di chiedere "scusa") come quello in cui stiamo vivendo,  esiste, aldilà di ogni pessimismo, un'alternativa di pace. E' una strada lunga e complessa che non può prescindere dalla comprensione della storia e dall'imparare a riconoscere le ragioni e le sofferenze di quelli che si considerano i nostri presunti avversari. 
Nei conflitti armati del Medio Oriente (e non solo) che si sono verificati dal dopoguerra ad oggi, si può affermare che tutti sono stati, allo stesso tempo, "carnefici e vittime" e che nessuno ha avuto, o ha, come viene detto ad un certo punto nel film, il "monopolio della sofferenza". 
La trama che si sviluppa in maniera molto avvincente e coinvolgente, mostra chiaramente che il vero nemico contro cui bisogna combatterre è il vittimismo, quel sentimento che si annida nel cuore di ogni uomo, caratterizzato dal senso opprimente di aver subito solo torti dagli altri e di vivere schiavi della rabbia contro i propri presunti nemici. 
Ecco allora che il Libano, e più in generale il Medio Oriente, in questa accezione, diventano, secondo l'idea di Doureri, il paradigma di un tempo instabile e rissoso, cioè quello in cui stiamo vivendo.
Ma nella storia sono esititi anche un altro Libano e un altro Medio Oriente, quelli caratterizzati dalla coesistenza pacifica e rispettosa di religioni, culture ed identità differenti. Il fascino di questa società cosmopolita è lo sfondo di questo film, non appare come una reliquia del passato, ma viene mostrato come una prospettiva, forse l'unica possibile, per il futuro.
Come ha recentemente affermato lo scrittore israeliano Eshkol Nevo parlando di Gerusalemme (ma sono parole vere per tutto il Medio Oriente e, forse per il mondo intero): "...da queste parti non c'è futuro senza compromessi e senza vedere l'altro...".
Così anche un litigio, perfino quello caratterizzato da risvolti violenti, può diventare l'inizio di un percorso per arrivare alla riconciliazione con sè stessi e alla vera comprensione dell'altro

Francesco Casarelli

(Le frasi attribuite al regista Ziad Doureri sono state ricavate da una sua intervista pubblicata sulla rivista online Rolling Stone - Italia)


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