"I prescelti": la banalità del male in un istituto pediatrico
E’ noto come il nazismo avesse concepito un terribile progetto complessivo, che avrebbe richiesto non solo l’eliminazione della Gegenrasse (gli ebrei), bensì pure quella di qualsiasi altra “vita indegna di essere vissuta”. Accanto al delirio razzista, la Germania hitleriana portò avanti una vera e propria eutanasia di massa, la cosiddetta Aktion T4 (l’ufficio preposto era a Berlino, in Tiergartenstrasse al n. 4), che causò la morte di molte decine di migliaia di anziani, malati e disabili. Per fare un esempio - ma la stessa cosa accadde in moltissime case di cura in tutto il Terzo Reich -, fra il 1940 e il 1945 in una clinica di Vienna, “am Spiegelgrund”, vennero deliberatamente soppressi centinaia di bambini e adolescenti colpevoli di essere malati incurabili, avere handicap gravissimi, soffrire di disturbi psichici: le loro vite erano inutili, e quanto alle risorse e alle cure di cui necessitano, beh, “prima venivano i sani e i mobilitati per lo sforzo bellico”.
Quanto accadde alla Spiegelgrund è il tema del nuovo, toccante lavoro - “I prescelti” (Marsilio editore) - del romanziere svedese Steve Sem-Sandberg, che già si era cimentato sugli anni del secondo conflitto mondiale con “Gli spodestati”, ambientato nel ghetto di Lodz, e che qui dà voce al piccolo Adrian Ziegler, mezzosangue zingaro, e a tante altre piccole vittime, come pure all’infermiera capo Anna Katschenka e a parecchi altri medici e sanitari traditori della loro stessa professione.
I “prescelti” sono minori che soffrono di disturbi e di disabilità: “Non so se ve ne rendete conto, ma siete dei prescelti, perciò siete qui”, dice loro uno dei direttori. Pre-scelti, come vuole ogni pre-giudizio. Selezionati tra i membri della pura razza ariana per salvarla da ogni possibile degrado.
Vicende come queste si ignorano, si dimenticano, quasi si perdano nel gran mare dell’Olocausto, ma bene ha fatto Sem-Sandberg a portarle allo scoperto, per ricordarci che gli stessi che urlavano “Deutschland über alles” si sono macchiati dell’omicidio di centinaia di migliaia di tedeschi; che gli stessi che pensavano di cancellare ogni malformazione dal corpo sociale hanno scelto di vivere deformati nel cuore e nella mente.
Non è piccolo, in effetti, lo spazio che l’autore dedica ad indagare la mentalità dei carnefici, uomini e donne comuni, che hanno declinato la “banalità del male” nelle corsie di un ospedale.
Sem-Sandberg ha spiegato: “Il caso dell'infermiera Anna Katschenka è esemplare. Non è una nazista, viene dalla classe operaia. La sua famiglia è stata perseguitata dal regime”. Ma, appunto, una tale condizione, invece di farsi resistenza al male, si trasforma paradossalmente in una giustificazione di fronte ai crimini che si sta per compiere: “E’ interessante vedere che le infermiere si considerano in qualche modo le vere vittime, perché dicono: ‘Sì, è triste per i bambini, ma in fondo sono mentalmente disturbati, non si accorgono nemmeno di quel che sta accadendo e che è, anzi, la cosa migliore per loro. Siamo noi, invece, che ogni giorno dobbiamo affrontare questo terribile lavoro. Siamo noi a soffrire, siamo noi le vittime’. Il male non nasce da orde di tedeschi marcianti, con la mascella squadrata, ma proprio da questo complesso miscuglio fra atteggiamento narcisistico e banale quotidianità”.
Una riflessione preziosa, che forse ci aiuta ad andare oltre gli anni della seconda guerra mondiale, a avvertirci di quanto può essere pericoloso, per la società e per noi stessi, indulgere in un vittimismo che ci fa perdere di vista le vere vittime di ogni tempo.
Francesco De Palma
Nessun commento
Posta un commento