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Leggi razziali. Una brutta storia


Ricorre oggi l’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione realizzata dal sovrano Vittorio Emanuele III. Si trattò di un’iniziativa tutta italiana, seppur qualcun oggi continua a ripetere la teoria della pressione da parte del Reich nazista. L’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, hanno sottolineato diversi storici. Ancor più dopo la conquista dell’impero coloniale con conseguente  forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.

Come ci ha spiegato lo storico De Felice, l’introduzione delle leggi razziali fu preceduta dalla diffusione dell’idea dell’esistenza di una razza italiana pura nei secoli. Tutto attraverso una propaganda finalizzata a veicolare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda ebbe tra i suoi principali protagonisti la rivista «La Difesa della razza», diretta da Telesio Interlandi,  organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante. Tutti i suoi numeri, dal 1938 al 1943, si sforzavano di modificare le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo raccapriccianti quelle delle popolazioni nere. Tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento tanti ebrei; costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una notevole componente culturale. Tanti di loro non sarebbero più fatto ritorno in Italia, anche dopo la liberazione. Come ci hanno mostrato anche diversi straordinari film, le leggi contro gli ebrei vietarono matrimoni con cittadini ebrei, rappresentando una forte ingerenza nel privato dei cittadini: il divieto dei; decretarono l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; diedero inizio all’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.  Di fatto, ma soprattutto anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B. Gli stessi ebrei – nell’immediato - non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali.
Come ci ha ben descritto Riccardi, dopo l’8 settembre la Chiesa cattolica – soprattutto a Roma - si adoperò in vari modi con operazioni di salvataggio. Tante persone comuni nascosero ebrei, mettendo a serio repentaglio la loro vita. Non bisogna dimenticare che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
Tuttavia, prima dell’armistizio un’ampia schiera di italiani si rese protagonista di comportamenti di vero e proprio sciacallaggio: in particolar modo molti ebrei facoltosi si videro costretti a svendere i loro beni a degli speculatori, per non vedersi espropriati delle loro proprietà.


Le leggi razziali non hanno rappresentato un fatto isolato, un errore di percorso. Sono state il compimento del fascismo. Il loro aspetto più velenoso e ideologicamente criminale è stato – come ha osservato Festorazzi sulle pagine di Avvenire - quello di creare odio sociale, «scavando un solco di inimicizia e di sospetto tra comunità di persone che prima di allora avevano convissuto in armonia».
Le leggi razziali sembrano una storia lontana, qualcosa che non ci appartiene. Ieri sulle pagine del Corriere, Andrea Riccardi ci ricordava la «paura della storia». E’ sufficiente vedere cosa accade di fronte al fenomeno delle migrazioni con il quale ci si misura con gli stessi sentimenti di esclusione che hanno generato le leggi razziali: «l’uomo e la donna globali hanno paura della grande storia del pianeta mondializzato … la paura della storia metabolizza tutte le risposte». Allora la «risposta spesso si orienta in senso verticale, come quella dei leader forti: l’io e un vertice che mi garantisca».
L’articolo di Riccardi, incentrato sul bisogno diffuso di ricostruire la comunità, intesa come realtà contrapposta alla solitudine del cittadino globale, conteneva delle indicazioni utili al fine di prevenire la formazione di quell’humus che ottanta anni fa portò alle leggi razziali: esiste «il bisogno di abitare il mondo globale in modo meno anonimo, meno isolato: c’è una dimensione comunitaria da coltivare e far crescere, che non può essere solo un’eredità del passato da conservare, ma qualcosa da reinventare. La dimensione comunitaria è un sogno, un amore, un legame, un tessuto di reciprocità, un modello o invece un modo di vivere con gli altri… È — direbbe il grande intellettuale ebreo Buber — “fare il possibile e desiderare l’impossibile”. Per abitare la globalizzazione, c’è un bisogno diffuso di ricostruire la comunità, come nota Bauman, anche se realizzare una comunità o viverne la tensione richiede una grande capacità di integrazione con l’altro».

Antonio Salvati

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