Suicidio assistito e cura della vicinanza
E’ arrivata - tanto attesa - la
decisione della Corte costituzionale sulla costituzionalità dell’articolo 580
del codice penale (che punisce sempre e comunque l’istigazione al suicidio, anche
il semplice aiuto). Com’è noto, la Consulta fu investita durante il processo a
Marco Cappato, esponente dell'associazione Luca Coscioni per la libertà di
cura, che accompagnò in Svizzera Fabiano Antoniani (in arte dj Fabo),
tetraplegico in seguito a un incidente, a morire. La Corte si è pronunciata con
uno scarno comunicato con il quale non viene ritenuta illegittima la norma che
sanziona l'aiuto al suicidio. Essa resta in vigore. La sua eliminazione avrebbe
gravemente compromesso il diritto alla vita e la sua tutela che è «all’essenza dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione italiana», come disse la Corte nella sentenza 35 del
1997. In attesa delle motivazioni dell’ordinanza, nel comunicato si aggiunge
che la valutazione su sue eventuali modifiche compete al Parlamento, chiamato
ad assumere piena responsabilità su questioni cruciali come la vita e la morte,
provando eventualmente a differenziare fra le specifiche situazioni che
emergono dalla drammaticità del quotidiano. Pertanto, il legislatore è e resta
sovrano. Spetta ad esso porre mano «all’attuale
assetto normativo – recita il comunicato della Corte - concernente il fine vita (che)
lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente
meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente
rilevanti». In altri termini, il giudizio della Corte è sospeso. Tale è
anche il processo a carico di Marco Cappato per il suicidio assistito che lo ha
visto protagonista. La trattazione della questione di costituzionalità
dell’articolo 580 del codice penale è stata rinviata di una anno dalla Corte e
precisamente ad un’udienza fissata per il 24 settembre 2019. La palla torna,
dunque, al Parlamento. Infatti, i giudici – come già detto - hanno sollecitato
un suo intervento per rivedere la disciplina in materia.
Difficile dare risposte e
soluzioni immediate ad un tema delicato come quello del suicidio. Il suicidio è
spesso un atto irrazionale. Un tale fenomeno richiede piuttosto di essere letto
nella complessa dinamica dei soggetti e della lettura da essi compiuta delle
difficoltà della vita. Alcuni dati, tuttavia, possono aiutarci. In Europa vige un
divieto generalizzato, anche penalmente sanzionato, di aiuto al suicidio (secondo
ricerche svolte in 42 Stati membri del Consiglio d’Europa, è punito in 36 Paesi).
In tal senso, il divieto italiano è tutt’altro che isolato. In Italia, l’ISTAT ci
informa, abbiamo circa 4mila suicidi. Si stima che la volontà suicidaria non
deriva principalmente da sofferenza fisica (rappresenterebbero il 6%); i
restanti dipendono da quelli che potremmo definire dolori dell’anima e
disperazioni non meno pesanti, legate a depressioni, sventure, rovesci,
talvolta a rimorsi o sensi di rovina e vergogna. C’è un luogo dove i suicidi sono
frequenti: il carcere, uno alla settimana (e quest’anno, giunti a 40 settimane,
sono già 50).
Per Monsignor Paglia, autore di uno splendido volume sulla dignità del vivere e del morire Sorella morte e presidente
della Pontificia Accademia per la Vita, porre fine ad una vita è sempre una
sconfitta. Poco prima che arrivasse la notizia della morte di dj Fabo disse: «Tutto questo mi rattrista molto. Deve
rattristarci tutti, e anche interrogarci». E aggiunse: «ogni volta che si pone termine a una vita, o
ci si propone di farlo, è sempre una sconfitta», ossia «una sconfitta amara: sia per chi dice “non
ce la faccio più" sia per una società che si rassegna all'impotenza». Per
l'arcivescovo «la legge non può per sua
natura» regolamentare «situazioni
così drammatiche» e «il rischio è di
creare la cultura dello scartò di cui parla il Papa». Ieri il vescovo
Vincenzo Paglia, sulle pagine de La
Stampa, commentando la decisione della Corte Costituzionale, ha
significativamente sostenuto che «dobbiamo
fare attenzione a non sostituirci alla morte, facendo noi il suo lavoro
sporco…». Ribadendo il suo convincimento a favore del mantenimento dell’articolo
del codice che parla dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio, ha aggiunto «come possiamo escludere che non vi possano
essere casi di vera e propria istigazione al suicidio da parte di persone che
possono avere, ad esempio, interessi economici nel far terminare la vita di un
parente malato? O casi in cui il suicida è stato magari con poca lucidità
aiutato nel vero senso della parola a togliersi la vita, quando invece c’erano
margini per un esito diverso? Insomma, stiamo giocando con un bene inestimabile
e preziosissimo, e dobbiamo fare attenzione e non fare noi il lavoro sporco della
morte. Noi dobbiamo aiutare la vita, dobbiamo aiutare le persone a vivere». Anche
il Card. Bassetti, presidente della Cei, è intervenuto citando l’esempio
concreto di un malato terminale che chiedeva ai medici di aiutarlo «a vivere un po’ di più, per poter vedere
l’esame del suo nipotino”, aggiungendo che «il desiderio è quello di vivere, non di morire». E «se
anche qualcuno, preso dalla disperazione, ha desiderio di morire, la Chiesa
– ha concluso - ha il dovere di
accompagnarlo. Dobbiamo essere dei ‘buoni samaritani’ fino in fondo, perché è
la solitudine che porta a tali decisioni».
Concludo raccontando anch’io un’esperienza
personale. Insieme ai miei amici della Comunità di Sant’Egidio, soprattutto
negli anni novanta, abbiamo accompagnato tante persone terminali malate di AIDS
nel loro ultimo percorso di vita. Ebbene nessuno di essi - e sottolineo nessuno
– espresse il desiderio di morire. Tutti erano tenacemente attaccati alla vita,
manifestando il valore della compagnia. Non a caso, parlando delle cure palliative,
mons. Paglia ha più volte detto che «sono
un messaggio di assoluta umanità. Tutti abbiamo bisogno di essere coperti
dell’affetto, della cura e della vicinanza, soprattutto quando siamo negli
ultimi tempi della nostra vita. Questa è la vera medicina». «Lo
sviluppo della tecnica ci ha convinti che la medicina è onnipotente. Se non
guariscono, gli altri si possono scartare. C’è una tentazione diabolica con
l’identificare il prendersi cura con la guarigione». Ma – ha osservato
mons. Paglia – «la medicina deve
prendersi cura di tutta la persona umana, anche quando non si può guarire». «È
questo uno dei punti fondamentali da riscoprire in un mondo che rischia di
essere un’appendice della tecnica».
Antonio Salvati
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