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A che serve la storia?


Spiace rilevare che la notizia dell’abolizione della traccia a carattere storico dalle prove di maturità ha suscitato reazioni soltanto da parte di storici, accademici e intellettuali. Giustamente, alcuni schieratisi a difesa della disciplina hanno palesato il serio rischio di un progressivo smantellamento del sapere storico, dell’importanza della conoscenza storica.
Come insegnanti di storia siamo da alcuni anni spettatori e consapevoli della crescente marginalizzazione della storia nei programmi scolastici, con una riduzione progressiva del monte ore dedicato alla disciplina in tutti gli ordini e gradi scolastici e, in ultimo, l’ulteriore taglio delle ore nei professionali. Ugualmente assistiamo alla scarso peso che il pensiero storico ha nel discorso pubblico contemporaneo. Talvolta, le evocazioni di carattere storico – sia in ambiti privati che nei talk show televisivi e radiofonici – indulgono verso una sorta di nostalgismo, di una memoria dei bei tempi andati. Sia ben inteso, non mancano gli esempi eccellenti: basti pensare – per fare  qualche esempio - alle straordinarie capacità divulgative dei programmi di Alberto Angela, alla programmazione di RAI storia o ai tanti speciali dedicati alla storia di Radio 3, soprattutto da quando è condotta da Marino Sinibaldi.


L’effetto più grave è la percezione dell’inutilità della storia, similmente a quanto accade alla politica. La globalizzazione – ha sostenuto Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio - non ha soltanto cambiato i tempi e impresso velocità ai processi: ha anche alterato realmente le cose. Dire “virtuale” non significa attribuire alla globalizzazione un potere inconsistente:  «sono cambiate le relazioni umane e mutate le relazioni economico-sociali. Si tratta di modificazioni effettive che hanno avuto impatto diretto sulla vita delle persone». La velocità di tali trasformazioni, rende spesso la disciplina della storia e la stessa pratica politica inutili, inadatte perché sempre in ritardo e non in grado di reagire a tempo o obbligata a rincorrerlo. In altre parole, se il mondo cambia esso stesso rapidamente, a che serve la storia per “cambiare”?
Non è nostra intenzione entrare nel merito della questione della traccia storica. Del resto, è stato osservato che solitamente gli alunni scartano la possibilità di svilupparla. Già questo richiederebbe un’ampia riflessione.
La questione è, piuttosto, domandarsi come divenire divulgatori efficaci della storia. Come, soprattutto, fornire ai giovani la passione per gli eventi che ci hanno preceduto, cogliendone la complessità e sapendo nello stesso tempo attrezzarli di un pensiero critico e interpretativo da utilizzare anche e innanzitutto sulla realtà della vita di tutti i giorni, personale e collettiva. E, infine, saper rispondere alla domanda che frequentemente ci viene rivolta dai ragazzi: “A che serve la storia?”
In un tempo nel quale la didattica per competenze viene preferita a quella per conoscenze e si cerca necessariamente l’utile immediatamente spendibile piuttosto del senso di un insegnamento, si potrebbe facilmente presentare una ricetta di verità ed utilizzare la storia, nei suoi passaggi più significativi, per la comprensione degli eventi geopolitici che si verificano nel presente. Ad esempio, non sarebbe difficile illustrare a dei ragazzi le potenziali conseguenze della disgregazione dell’Europa unita raffrontandole alla situazione europea dell’immediato dopoguerra, così come sarebbe più semplice commentare le dichiarazioni politiche, a cadenza quotidiana, riguardo flussi migratori e scelte economiche. Del resto, la storia personale è strettamente connessa alle scelte che compirà nella sua vita e alle sue valutazioni. Seppur la storia non si ripete mai nelle stesse modalità, sembra incredibilmente miope rinunciare all’insegnamento della storia dei popoli e alla memoria collettiva che va considerata l’estrema difesa, o baluardo, rispetto ad errori ciclici e irreparabili. Insegniamo ai nostri ragazzi a leggere, a comprendere e commentare le notizie più importanti facendo continui paralleli agli eventi storici più calzanti. Faremmo acquisire, in tal modo, alle nuove generazioni la capacità di discernere sostituendola all’obliò del disinteresse.



Un esempio riuscito di come dotare i ragazzi  di un pensiero critico e interpretativo da utilizzare nella vita di tutti i giorni è costituito dalla mostra organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio Prendi la cartella e vattene da scuola che evoca il momento nel quale gli studenti ebrei delle scuole e delle Università del 1938 hanno scoperto pochi giorni prima dell’inizio dell’anno scolastico di non poter più rientrare a scuola. I bambini delle periferie romane delle scuole della pace di Sant’Egidio con i loro disegni assai vivaci e colorati hanno espresso lo stupore di fronte all’ingiustizia di allora ma anche il dolore per tutte le forme di esclusione di cui loro stessi sono stati vittime o testimoni. Colpisce la grande immedesimazione dei bambini, accompagnata da tanti «perché», nei confronti di chi fu cacciato da scuola. Una comprensione della storia che fa leva sui sentimenti perché esiste uno spirito dell’infanzia più immediato e meno assuefatto del nostro, come spiega la curatrice della mostra Evelina Martelli. «Se studio potrò difendermi con le parole», si legge in un foglio della mostra scritto da un bimbo. Anche altri hanno fatto dei riferimenti con quello che si ritrovano a vivere, con le piccole e grandi ingiustizie del presente.
Perché - per dirla con De Gregori - «la storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso».

Alessio Alfano

Antonio Salvati

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