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“VERAMENTE IO SONO ITALIANA”. 21 MARZO GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLE DISCRIMINAZIONE RAZZIALE


Praticamente ogni giorno ci vengono segnalati nuovi casi di xenofobia e razzismo. Si tratta di un fenomeno non facile da rilevare, in quanto molti episodi non vengono denunciati o non sono adeguatamente rilevati e approfonditi. Tuttavia, diversi analisti che se ne occupano segnalano un aumento dei casi. Episodi come gli insulti sui muri alla famiglia di Melegnano che ha adottato un ragazzo africano, gli episodi di intolleranza xenofoba sui mezzi pubblici, i cori razzisti da stadio, gesti ambigui o apertamente offensivi persino a scuola ci mostrano che si sta sviluppando un clima culturale in cui diventa sempre più ammissibile esprimere sentimenti di aperta avversione verso persone immigrate, oggi soprattutto africane. In tal senso, il prossimo 21 marzo, Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazione razziale, è un’opportunità per fare una riflessione sul tema, in un tempo in cui la stessa politica sdogana slogan finalizzati all’esclusione.


L’immagine dei migranti che arrivano attraverso la rotta del Mediterraneo (relativamente pochi rispetto alla grande maggioranza che proviene da altre rotte), la politica dei porti chiusi, il decreto sicurezza, le prese di posizione contro la minaccia alla sicurezza dei nostri confini e della nostra identità culturale (oltre che delle nostre tasche, già abbastanza vuote) hanno favorito la discriminazione verso coloro provenienti dall’Africa, malgrado tutti gli sforzi operati da tanti per l’integrazione e l’abbattimento di barriere culturali verso gli africani.
Inoltre, un “nuovo antisemitismo” si aggira per l’Europa e in Italia. Nei momenti di crisi, quando cresce la paura e si alzano i muri, non vengono colpiti solo gli immigrati, ma torna anche il “nemico innocente” di sempre, l’ebreo. Non tanto tempo fa, una trasmissione su Radio3, ricordando il centenario della nascita di Primo Levi, dava voce a Fabrizio Gifuni, che aveva letto brani delle sue opere in una commovente cerimonia svoltasi nel campo di internamento di Fossoli (dove Levi transitò prima di essere avviato ad Auschwitz). La conduttrice  denunciò in diretta il fatto che giungessero vari messaggi violenti di italiani non proprio “brava gente”: «Si diceva “Basta con questi ebrei”. Rispetto a qualche anno fa, un peggioramento. E questi sms arrivavano quando parlavamo di rom. Dunque, la platea dell’odio si allarga». Una pedagogia della paura – direbbe Daniele Novara - perché questa è la linea politica: paura del diverso, dello straniero, di chi ha la pelle nera; bisogno di possedere e usare un’arma, chiusura dei porti ai poveracci e dei centri di accoglienza ai senza potere: sono tutte diverse declinazioni di quest’unica, perversa, pedagogia che, purtroppo, sta avendo molta presa sulle giovani generazioni.
La scuola fatica ad includere bambini Rom che quotidianamente vediamo percorrere i vagoni della metropolitana in lungo e in largo a chiedere l’elemosina. Talvolta, sono oggetto di violenza come attesta l’episodio accaduto alla stazione Termini circa un mese fa: il ferimento da parte di un adulto di un bambino rom di 11 anni («perché mi hanno rotto»). Anche dopo essere stato bloccato dai vigilantes, l’uomo ha continuato a inveire contro di lui e, addirittura, con un taglierino lo ha ferito alla testa.
A proposito di rom, Roma continua ad essere la città con il maggior numero di persone rom in emergenza abitativa, il 27% del totale nazionale. Diciassette insediamenti formali e circa 300 informali: è questa la “mappa della vergogna” di una città che accusa gravi ritardi nel promuovere strategie inclusive efficaci. Ma in questo la Capitale è in compagnia di altre importanti metropoli, da Torino a Napoli passando per Giugliano - città campana dove insiste uno dei più grandi insediamenti informali abitato da una comunità rom da anni spostata senza soluzione da un punto all’altro del territorio – e Foggia, dove a Borgo Mezzanone 800 rom bulgari hanno vissuto nel 2017 in condizione di drammatica precarietà abitativa e sfruttamento lavorativo. L’antigitanismo rimane uno degli elementi che continua a caratterizzare la nostra società, malgrado la “distrazione” operata dal flusso migratorio dell’ultimo biennio, che solo in parte ha distolto i media, i politici e l’opinione pubblica dalla cosiddetta “questione rom”. Nel 2017 l’Osservatorio 21 luglio aveva registrato come ogni due giorni venga riportato sui media un discorso d’odio contro i rom e sinti, il 4% in più rispetto allo scorso anno, con 60 casi segnalati nella sola città di Roma. «L’unica soluzione è il Napalm» ha scritto, riferendosi ad un insediamento rom, un consigliere comunale il 26 maggio 2017. Parole pesanti che diventano macigni quando formulate da un rappresentante delle istituzioni e che sintetizzano un pensiero diffuso di fronte al quale si corre il persino il rischio di assuefarsi. Ma che ci obbligano a riflettere su quanto ancora occorra fare perché il pensiero comune, il linguaggio dei politici, gli articoli dei giornalisti e le prassi degli amministratori debbano con urgenza subire un’inversione di rotta al fine di arrestare l’imbarbarimento che sempre di più pervade la nostra società. Dove i 148 “campi rom” istituzionali, sparsi sul territorio nazionale, rappresentano la più evidente cartina di tornasole. Eppure la maggior parte di loro sono italiani. Emblematico quanto accaduto a una giovane rom che ha risposto a chi la invitava a tornare al proprio paese: «ma veramente io sono nata qui, sono italiana». Un vero e proprio autogoal per gli odiatori di professione (altrimenti detti ”haters”).



Alcuni giorni fa sulle pagine del quotidiano Avvenire Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, osservava che nel «nostro mondo di monadi impaurite si è costruito un nuovo razzismo. Si grida: “Io non posso, e comunque non voglio, essere insieme a lui, a lei, a loro”. Questa versione più moderna, apparentemente più accettabile, di un male antico, ha attecchito, si è fatta strada, è stata sdoganata a livello politico e mediatico e infine ha rotto gli argini. E allora le parole si fanno pietre. Il “buonismo” è dipinto come un male. Tutto è scusabile perché si tratta di difendere i confini. Chissà, forse è davvero ora di “difendere i confini”. Cioè di impedire che una cultura umanista antica di duemila anni venga messa all’angolo dai luoghi comuni e dalle pulsioni “di pancia”. Di chiamare le erbacce della contrapposizione e del disprezzo, che abbiamo lasciato crescere indisturbate insieme agli alberi di una cultura umanista e solidale, roba infestante e dannosa. Se non faremo finta di niente e riconosceremo le radici profonde di un nuovo razzismo guardando con fermezza al male oscuro dell’Italia di oggi potremo farcela. Non saremo soli nel difendere l’umanità. E, come suggerisce l’esperienza, le necessità economiche, professionali e di cura di un Paese che invecchia rapidamente, ci ricorderanno con la forza dei numeri e della realtà che non c’è nessuna salvezza possibile nell’esclusione, nell’autosufficienza, nel vittimismo. Abbiamo bisogno degli altri e gli altri saranno sempre diversi da noi».

Barbara Costa

Antonio Salvati

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