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Cambiare il carcere si può


Sono tanti i libri usciti negli ultimi anni che hanno sottolineato la “centralità” della questione carceraria, partendo dalla convinzione dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana. Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato per ben due volte l’Italia a motivo delle violazioni presenti nelle carceri. È ormai noto a tutti quanto il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti. Malgrado l’adozione di alcuni provvedimenti, dopo tali condanne, per rimediare alle gravissime disfunzioni, restiamo lontani da una soluzione. Eppure già la Costituzione italiana avvertiva con estrema chiarezza che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27).

Sull’umanità dolente del carcere, si sofferma il bel libro di Ezio Savasta Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere (Infinito Edizioni, 2019, pagine 192, euro 14). Savasta descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, smontando gli innumerevoli luoghi comuni che gravitano sul mondo dei detenuti. Attraverso il racconto di numerose vicende che spesso hanno dell’incredibile, l’autore conduce il lettore ad appassionarsi con le tante storie con le quali si imbattuto dopo una frequentazione ultradecennale nelle carceri, soprattutto quelle romane “Regina Coeli” e “Rebibbia”, realtà tutte inserite nel tessuto urbano della Capitale, seppur, come sempre accade con gli istituti penitenziari, mondi isolati, di cui tutti cercano di dimenticarsi. Non potevo non leggere il libro di Ezio con il quale, insieme ad altri amici della Comunità di Sant’Egidio, abbiamo condiviso tante storie e vicissitudini penitenziarie, a partire dagli inizi degli anni novanta. Ma Liberi dentro non è solo il volume di un amico. Potremmo dire che è un libro sull’amicizia, sulle amicizie di alcune delle persone detenute, quasi tutte straniere, vissute con l’autore che viene “dalla libertà”. Amicizie che attestano che, dentro le mura del carcere, c’è un enorme potenzialità umana, con una sua dignità, che aspetta di essere compresa, voluta bene, per rimettersi in gioco, per tirare fuori il meglio di sé (emblematici gli esempi di detenuti che desiderano contribuire ai progetti di solidarietà di Sant’Egidio all’esterno del carcere). In tal senso, il libro di Savasta non è un libro “tecnico”, per addetti ai lavori, anzi. E’ veramente un libro per tutti, anche per coloro che non hanno mai avuto nessun contatto con il carcere.
Certo, è il libro di un cristiano che ha fatto propria la nota affermazione evangelica: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Sono poche parole – come quelle delle altre opere di misericordia –, che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Tuttavia, l’autore utilizza un linguaggio decisamente semplice e parla laicamente a tutti, riuscendo a rappresentare una umanissima complessità, quella del carcere, in cui spesso volontà di riscatto ed incapacità di tener fede ai propositi, sono compresenti e non consentono al lettore di prendere una posizione netta. E’ evidente, comunque, che il libro s’inscrive nella tradizione cristiana ininterrotta della pratica della visita ai carcerati, tra le più pervase di misericordia. E spesso è stata all’origine di una nuova e più umana condizione dei carcerati e degli stessi edifici nella loro struttura architettonica sino al cambiamento del termine, da carceri a penitenziari, ossia luoghi di penitenza in analogia ai conventi. E la penitenza era tesa alla redenzione, al cambiamento del colpevole, perché potesse reinserirsi nella società. Tale amore per i carcerati – di cui ha tanto scritto Vincenzo Paglia - ha spinto molti credenti lungo i secoli a frequentare i luoghi di reclusione e a sviluppare una preziosa e molteplice azione tesa comunque ad umanizzare le carceri. Basti pensare al patrocinio gratuito, alla visita giornaliera, all’aiuto culturale con libri consegnati alle diverse stanze, al privilegio di poter liberare un condannato a morte, e così oltre. Le amministrazioni cittadine, vista la capacità di tale intervento, soprattutto nei secoli XVI-XVIII, a volte appaltavano ad apposite confraternite dedicate all’assistenza ai detenuti la gestione stessa delle carceri.
Se ne sentiva il bisogno di questo libro. Servono narrazioni dense di humana pietas. E’ un libro da diffondere, specialmente nelle scuole. Soprattutto in un tempo in cui prevale una mentalità vendicatrice verso i colpevoli. La conseguenza logica di questo atteggiamento porta a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i numeri di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). Un tempo in cui si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Eppure gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso.
Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: «Che corteo!».

Antonio Salvati

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