"I giovani mi hanno salvato la vita. E ora vivo per gli altri". Intervista a Suhjaa Graham, testimone della lotta alla pena di morte
“Qualunque
mestiere facciate in futuro, non limitatevi ad esso: lottate sempre per
la giustizia sociale e l’affermazione dei diritti umani, e sarete
migliori nella vita e nella professione”. Suhjaa Graham non cessa di
ripeterlo alle centinaia di giovani incontrati nel tour italiano di
“Città per la vita” di questa settimana, lui che, ai giovani, deve la
vita. Graham è infatti uno dei primi sopravvissuti al braccio della
morte. Dopo quattro anni di reclusione a St. Quentin, in California, il
suo processo è stato riaperto e la condanna annullata. Ha attraversato
l’inferno della condanna a morte, ha sperimentato la forza dell’impegno
civile. Son passati trent’anni, ma Suhjaa ne parla, commosso, come fosse
accaduto ieri.
Come è avvenuta la sua liberazione?
Siamo
nella seconda metà degli anni Settanta. Ricevo la visita di un gruppo
di studenti di scuola superiore che si interessano a me. Dopo qualche
tempo, vedo apparire la mia faccia sulla piccola tv che ogni tanto
potevamo vedere dalla cella. Mi chiedo cosa avessi combinato ancora di
male. Invece era la notizia di un nuovo processo: quei ragazzi si erano
mobilitati, nelle scuole, nelle chiese, in piazza, avevano fatto rumore e
raccolto fondi per una nuova difesa e un nuovo processo.
Che la ha scagionata…
La
mia storia è stata completamente rivista, ma sono occorsi due lunghi
processi. Ero stato condannato a morte per l’omicidio di una guarda
carceraria avvenuto durante una protesta. Mi trovavo in prigione per
aver partecipato ad una rapina che aveva fruttato 35 dollari. Quella
morte colpì il pubblico, serviva un colpevole; scelsero me, che ero già
noto per il mio attivismo in difesa dei diritti dei neri in carcere e
contro il razzismo. Nel terzo e nel quarto processo venne fuori la
verità: i testimoni erano stati comprati, con soldi e sconti di pena, e
la giuria che mi ha condannato era composta solo di bianchi.
Cosa significa vivere nel braccio della morte?
Dal
momento della condanna il tuo nome scompare. Sono entrato a St. Quentin
nemmeno un’ora dopo il verdetto. Il giudice mi disse: sentirai il gas
penetrare nel tuo corpo. All’epoca l’esecuzione avveniva nella camera a
gas. Ancora oggi non trovo le parole per descrivere l’umiliazione e la
sofferenza di quel luogo. Sono stato picchiato e torturato. In cella per
23 ore e mezza al giorno. Nelle rare visite scendevo dall’ultimo
settore, quello più in alto, il braccio della morte, fin giù, incatenato
mani e piedi e scortato da dodici guardie armate, che gridano dead man walking,
uomo morto che cammina, mentre passavamo in mezzo a tutti. Anche le
visite, così, divenivano una pena. Risento quel grido in ogni momento,
ogni giorno. Ancora oggi il mio modo di camminare a piccoli passi
risente di quelle catene. Quand
o sono
uscito ho promesso a tutti i detenuti, uno per uno, che non avrei mai
smesso di lottare per loro, innocenti o colpevoli che fossero.
Qual è la sua storia?
Ho
61 anni, sono nato nel Sud degli Stati Uniti, a Providence, in
Louisiana. Il regime di segregazione razziale era durissimo. Ci era
proibito l’accesso in quasi tutti i luoghi pubblici. Sono cresciuto con i
nonni, finché mia madre non ci ha chiamati a Los Angeles, dove era
andata in cerca di fortuna. A Los Angeles i ghetti, le bande, la
violenza, entrare e uscire dal riformatorio… niente scuola, ho imparato a
leggere e scrivere a 21 anni, in carcere. È lì che ho incontrato le
persone migliori e più importanti della mia vita. Mi hanno adottato.
Ricordo Mohammed, aveva 45 anni, mi ha insegnato tutto: non buttare via
la tua vita, cambia, raddrizzati, mi dicevano. Ho visto una grande
ingiustizia: il razzismo. Verso i neri c’era e c’è ancora grande
disprezzo. Lì ho iniziato a combattere. Sono stati i miei
compagni a ribattezzarmi Suhjaa, il grande, in swahili. Studiai
storia e politica. Divenni un leader del Black prison movement, che
nelle prigioni della California faceva ciò che il Black Panther party
faceva nella società. Martin Luther King è il mio grande e unico
riferimento. Quelle sue parole, “perdona e ama tutti”, che mi sembravano
invivibili, si sono realizzate poco a poco nella mia esistenza.
Qual è la sua vita adesso?
Progetto
giardini. Ho tre figli e quattro nipoti, vivo nel Maryland. Devo tutto a
mia moglie Phillys che mi accompagna, infermiera a St. Quentin, bianca,
che mi ha amato e difeso quando ero nel braccio della morte nonostante
tutti la ritenessero pazza. Lotto insieme a Bill Pelke e al suo Journey of Hope, e con la mia associazione, Witness to Innocents. From death row to freedom.
Un messaggio per i giovani e per la Comunità di Sant'Egidio.
Vivere
sempre per gli altri. Per i diritti, per la giustizia, per i più
poveri. Solo questo rende felici. Si può fare moltissimo. Amo tanto la
Comunità di Sant'Egidio, la sua passione per la pace e la giustizia
ovunque nel mondo. In ogni conferenza inizio e termino con il mio
slogan: Sant’Egidio today, Sant’Egidio tomorrow, Sant’Egidio forever.
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