Letture: Agostino Giovagnoli, La Repubblica degli italiani (1946-2016)
Il nuovo libro di Agostino Giovagnoli «La Repubblica degli italiani 1946-2016» (Laterza) ripercorre, come si evince dal titolo, il settantennio repubblicano. Una storia che troppo spesso non si ama ricordare - come spiega bene l’autore nella lunga introduzione - perché troppo diffusa è la convinzione che il nostro passato repubblicano sia all’origine dei tanti problemi dell’oggi. In realtà, come ha sottolineato in una sua recensione Andrea Riccardi “è una storia, per tanti aspetti, bella e avvincente: non solo un succedersi di governi fragili né un gioco di alchimie politiche. Leggere questo volume riconcilia con la nostra storia appassionandoci a essa: gli italiani sono cresciuti sotto tanti punti di vista. Anche la disaffezione dalla politica o la protesta sono il frutto di un processo storico per cui gli abitanti della penisola sono divenuti pienamente cittadini. Non è una storia sprecata o solo una trama di errori” (si veda http://www.corriere.it/cultura/16_ottobre_20/agostino-giovagnoli-libro-laterza-dc-a5b3c000-96df-11e6-9c27-eb69b8747d1f.shtml).
Buona parte del volume è riservata a quella che Scoppola in un importante e fortunato saggio definisce 'la Repubblica dei partiti', al loro ruolo a partire dal secondo dopoguerra, alla evoluzione del nostro sistema politico e in particolare alla sua crisi. Certamente i partiti nei primi decenni della storia repubblicana hanno concorso ai grandi cambiamenti avvenuti nella società italiana, nei valori come negli stili di vita. La crisi dei partiti e della loro rappresentatività va collocata nei cambiamenti innestati dalla globalizzazione che non hanno riguardato solo le politiche economiche: hanno investito anche le visioni ideologiche, le identità partitiche e, persino, i riferimenti fondamentali della politica. Si è avviata una crisi complessiva dello Stato nazionale. Nei decenni post-bellici - avverte Giovagnoli - le masse sono davvero «entrate» nello Stato, grazie all’azione di grandi partiti, in particolare la Dc e il Pci. Il grande “slancio ricostruttivo si è incontrato in Italia con un processo di rafforzamento dello Stato nazionale, che ha beneficiato anche dello sviluppo di nuove forme di welfare state”. Questa spinta, però, è entrata in crisi a partire dalla fine degli anni settanta. La globalizzazione, infatti, ha indebolito progressivamente la costruzione politico-istituzionale europea dello Stato nazionale. “La moltiplicazione delle relazioni economiche, sociali, culturali «globali» ha insomma coinciso con un indebolimento delle istituzioni politiche tradizionali. È iniziato un declino dello Stato nazionale europeo fondato su sovranità territoriale, amministrazione centralizzata, nazionalizzazione delle masse. Tale Stato non si è dissolto, come molti hanno temuto o sperato. È stato però relativizzato dalla globalizzazione, nel senso di trovarsi inserito in una serie di reti economiche, finanziarie, comunicative, migratorie e altro che ne hanno ridimensionato il carattere assoluto e lo hanno costretto a ripensare la sua sovranità in un contesto che la limita sotto molteplici profili”.
Inoltre, i processi di industrializzazione e di urbanizzazione hanno progressivamente ridotto l’azione socializzatrice svolta dalle grandi formazioni politiche. Le sedi dei partiti o le loro «cellule» sui luoghi di lavoro hanno perso di importanza e sono state sempre meno frequentate. Alla fine del secolo scorso, “mentre tramontavano le ideologie, le diverse formazioni politiche sono diventate più frammentate, più conflittuali e meno inclini ad accordi tra partiti come quelli che hanno avuto tanta importanza nella democrazia consensuale nei primi decenni post-bellici” . La globalizzazione non ha cambiato solo i rapporti tra le grandi aree del mondo, ha anche modificato le società: “è mutato in profondità anche lo statuto sociale dell’individuo: il suo contesto di riferimento è diventato meno preciso e stringente, i suoi orizzonti sempre più ampi e indeterminati. Il globale ha invaso il locale, non solo nei paesi ricchi e avanzati ma anche in quelli poveri e arretrati”. Lo sviluppo di una società sempre più liquida, con identità instabili e senza confini certi, ha progressivamente incrinato o dissolto grandi collanti collettivi in grado di tenere insieme appartenenze sociali, interessi economici e patrimoni culturali. Occorre aggiungere che “nel corso degli anni ottanta si è compiuta una progressiva disarticolazione degli universi politico-culturali che hanno costituito i pilastri del dibattito pubblico nella Prima repubblica: cattolico, comunista e laico-socialista. È tramontato, in particolare, il rapporto tra élites e masse, mediato dai partiti, che ha svolto un ruolo cruciale nei primi decenni post-bellici. Nel dopoguerra, infatti, l’affermazione dei partiti di massa ha segnato il ridimensionamento della funzione svolta direttamente dalle élites nella vita pubblica, non solo in età liberale ma anche durante il fascismo. I principali partiti repubblicani, però, hanno avuto cura di creare stretti rapporti con le élites, per coinvolgerle nella costruzione di una democrazia di massa. Da un lato, cioè, hanno rivendicato alle masse da loro rappresentate la direzione della vita politica; dall’altro, hanno continuato ad affidare alle élites - sociali ed economiche, culturali e professionali - importanti ruoli nella formazione politica, nella propaganda elettorale e, soprattutto, nella elaborazione di progetti di governo”.
Nelle società «liquide» di fine Novecento, compresa l’Italia, entrano in crisi le modalità di selezione della classe dirigente, anche per quanto riguarda i partiti e le loro leadership. “Alla democrazia rappresentativa tende a sostituirsi la «democrazia del pubblico»: non più cittadini che eleggono deputati, consiglieri regionali e comunali che conferiscono loro un mandato a rappresentarli che dura alcuni anni, ma spettatori che giudicano in tempo reale parole, azioni e comportamenti degli uomini politici, decidendone in modo immediato la sorte. Dalla democrazia rappresentativa, insomma, a quella del telecomando. Nei primi anni novanta è prevalsa in Italia la convinzione che i veri nemici della democrazia fossero i partiti e che riducendone la forza si sarebbero rivitalizzate le sue fondamenta liberali. Tuttavia, aggiunge acutamente Giovagnoli, “gli sviluppi successivi hanno però dimostrato che l’indebolimento dei partiti non ha rivitalizzato le istituzioni finalmente liberate da un’occupazione indebita, fermato i fenomeni di corruzione, restituito il potere ai cittadini e così via. Il declino dei partiti di massa è stato infatti parte di una più complessiva crisi dello Stato e della democrazia tra la fine del Novecento e l’inizio del secolo XXI”.
Non c’è solo la crisi dei partiti. Negli ultimi decenni si consolida il ruolo del Quirinale, grazie anche alle personalità diverse ma tutte profondamente legate alla cultura politica repubblicana, come quelle di Scalfaro, Ciampi, Napolitano e di Mattarella.
Antonio Salvati
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