Rompere le bolle al prossimo, ciò che la Rete impone
Negli ultimi mesi ho subito due shock profondi, la vittoria di Brexit e Trump, per me personalmente e apparentemente anche per la grande maggioranza dei miei conoscenti. Nel corso delle ultime settimane, gran parte della colpa è stata data ai media digitali e più in particolare alla cosiddetta bolla che questi creano (1).
I servizi come Facebook e Google da qualche anno utilizzano algoritmi di personalizzazione al fine di affrontare la crescente quantità di dati online e per ridurre il "sovraccarico di informazioni". Come riporta Wikipedia (2):
«La bolla di filtraggio è il risultato del sistema di personalizzazione dei risultati di ricerche su siti che registrano la storia del comportamento dell'utente. Questi siti sono in grado di utilizzare informazioni sull'utente (come posizione, click precedenti, ricerche passate) per scegliere selettivamente tra tutte le risposte quelle che vorrà vedere l'utente stesso. L'effetto è di isolare l'utente da informazioni che sono in contrasto con il suo punto di vista, effettivamente isolandolo nella sua bolla culturale o ideologica. Esempi importanti sono la ricerca personalizzata di Google e le notizie personalizzate di Facebook. Il termine è stato coniato dall'attivista internet Eli Pariser (3) (NdA fondatore di MoveOn), secondo il quale gli utenti vengono esposti di meno a punti di vista conflittuali e sono isolati intellettualmente nella propria bolla di informazioni.»
L'effetto della "bolla" può avere delle implicazioni negative sulla politica tradizionale, il processo decisionale e la vita sociale in generale. Inoltre, poiché questi algoritmi funzionano senza il controllo dell’utente, sempre di più la tecnologia si sostituisce alla nostra consapevolezza nel decidere cosa per noi è importante. L’insieme delle interazioni dell'utente con il sistema costituiscono la base della personalizzazione. Tuttavia, come ha approfondito Sen (4), ognuno di noi ha diverse identità, a seconda del contesto:
«La suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei «solitarista» all'identità umana, approccio che considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso [...]L'approccio solitarista può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta. Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità.»
Tale complessità viene ignorata dagli algoritmi di personalizzazione attuali. Inoltre, poiché il risultato degli algoritmi personalizzati dipende da molti fattori, l’affidabilità è molto difficile da prevedere. Secondo Pariser (5), i sistemi come l’algoritmo di Google hanno raggiunto un livello di complessità tale per cui anche i programmatori che l’hanno sviluppato non possono spiegarne completamente il comportamento.
Contrariamente a qualche anno fa, quando il problema dell'accesso alle informazioni presenti su Internet era soprattutto ridotto ad avere accesso all'hardware e alla connettività, oggi il problema è quindi avere la possibilità e la capacità di trovare intenzionalmente le informazioni giuste. O anche di inciampare involontariamente su informazioni che possono divenire rilevanti, quel fenomeno che è stato denominato serendipità.
Nel momento in cui il dualismo Tv-Internet segna piuttosto nettamente lo stacco tra passato e presente è necessario interrogarsi a fondo su questo mutamento di portata epocale. Ciascuno può constatare come siano cambiati i media con cui si interagisce per creare la propria visione del mondo. Non si tratta più e solo di un tema relativo ai nativi digitali, ai millenials e alle nuove generazioni, così come non si tratta semplicemente di una questione tecnologica ma rispecchia una ben più profonda trasformazione sociale e culturale.
L'abbassamento dei costi di comunicazione e della produzione di informazione resi possibili da Internet, ha portato ad un enorme aumento delle informazioni a disposizione del pubblico sia in quantità che diversità. Nel momento in cui riconosciamo il valore dell'informazione per il funzionamento corretto della democrazia e della vita sociale, riconosciamo anche la necessità di un filtro. Già i mezzi di informazione tradizionali effettuano un filtraggio, anche quelli che hanno rinunciato al compito aggiuntivo di intermediazione che gli spetterebbe, ma la loro influenza è in declino. Occorre trovare un modo per separare il grano dalla zizzania, altrimenti esiste concretamente la minaccia di un sovraccarico di informazioni. La questione che si pone è quindi se Facebook e Google, tra gli altri, sono in grado di soddisfare questo bisogno umano.
In molti casi la gente usa Internet, e i social network in particolare, come un nuovo mezzo per assorbire passivamente contenuto, un “perdere tempo” che non è così dissimile dal guardare la tv. Probabilmente questa è solo parte di un processo ancora in evoluzione e che rimane ai suoi inizi: mentre alcune persone si danno da fare contribuendo, altri non lo fanno.
È però importante sapere che negli ultimi cinque anni il numero di contenuti condivisi e prodotti sui social network è aumentato di oltre il 500%. Il Pew Research Center (6) riporta inoltre che negli Stati Uniti sempre più persone si informano tramite Facebook e Twitter, una tendenza che è destinata a continuare ad aumentare. Parliamo del 63% degli utenti, aumentati notevolmente a partire dal 2013, quando circa la metà degli utenti (52% degli utenti di Twitter, il 47% degli utenti di Facebook) dichiarava di informarsi sui social network.
Gli effetti di questo scenario sono che:
• le notizie non devono più necessariamente essere ancorate nei limiti accettabili del discorso "mainstream"
• le notizie sono mescolate con sentito dire, congetture, opinioni
• il mix delle notizie è eccessivamente sbilanciato verso le cose in cui si crede e contro le contraddizioni alla propria visione del mondo
Tutti i media giocano un ruolo essenziale nel processo di definizione e rappresentazione del rischio e del pericolo e ancora una volta i social network non fanno eccezione: di fronte alle "cattive notizie" possono attribuire colori e toni assai diversi alla negatività, alla drammaticità e agli elementi di conflitto presenti. Possono, in particolare, creare quel clima emotivo che Cohen ha definito "moral panic" (7). E' l'atteggiamento per cui una situazione, un episodio, una persona o un gruppo viene definito come una minaccia ai valori e agli interessi sociali.
Chi vuole informarsi prima seleziona su quali canali “sintonizzarsi” e quali “seguire”, poi seleziona quali messaggi “consumare” (leggere o ascoltare). Infine, dopo aver letto un certo numero di messaggi su un argomento particolare, si decide a quale di questi messaggi credere. Cosa cambia con i social media?
Secondo Marcia J. Bates dell’Università della California, esistono quattro fondamentali strategie di ricerca (8):
1. ricerca attiva e consapevole di un’informazione specificabile
2. monitoraggio: capacità di assorbire dall’esterno informazioni di specifico interesse senza però cercarle direttamente
3. esplorazione: non abbiamo uno specifico interesse o bisogno conoscitivo ma ci esponiamo attivamente alla possibilità di acquisire nuove informazioni
4. acquisizione passiva di informazioni (sono le informazioni che ci vengono incontro, non siamo noi a cercarle) e indiretta (in assenza di esigenze conoscitive specifiche)
Circa l’80% delle informazioni che acquisiamo nel corso della nostra vita ci vengono attraverso la modalità di acquisizione passiva, il 14% attraverso il monitoraggio; solo il 5% è acquistato mediante esplorazione e un esiguo 1% mediante ricerca attiva e consapevole. La quasi totalità (94%) del nostro bagaglio conoscitivo deriva quindi da una modalità passiva di acquisizione delle informazioni.
I social network sono ascrivibili perlopiù a questo contesto. La mente umana è regolata secondo la legge del minimo sforzo, al punto che spesso accetta anche contenuti di bassa qualità o affidabilità (se più facili da ottenere e usare) pur di non ricorrere a strategie di ricerca attive, le quali comportano necessariamente sforzi, tempi e competenze maggiori.
È molto probabile che i feed personali siano pieni solo di storie di proprio interesse. Si creerebbe dunque un effetto “cassa di risonanza” secondo il quale le convinzioni personali si rafforzano nell'udire o leggere idee simili. Le bolle di filtraggio possono quindi portare a utenti che ricevono informazioni distorte che possono a loro volta favorire l'intolleranza ai punti di vista opposti.
Nello studio “Quantifying Controversy in Social Media“ (9), Kiran Garimella dell’Università Aalto di Helsinki, dimostra come gli argomenti polarizzati non favoriscono le discussioni. Gli utenti alle estremità opposte di un discorso non stanno discutendo del problema, stanno solo ignorandosi l'un l'altro nel condividere articoli che sostengono il loro punto di vista. Questo comportamento è pericoloso perché, al contrario, la discussione spesso aiuta a portare fuori i fatti.
Di fronte a questo quadro è necessario chiedersi come questa “segregazione ideologica” sia diversa rispetto a quanto già accaduto e riscontrato con gli altri media e rispetto alle interazioni personali.
Prima dell’introduzione delle bolle di filtraggio, Matthew Gentzkow e Jesse M. Shapiro, docenti della Chicago Booth School of Business, provano a dimostrare nella pubblicazione "Segregazione ideologica online e offline" (10) che nulla prova in modo convincente che Internet accentui progressivamente la segregazione ideologica. Emerge che gli scambi online sono ideologicamente molto più diversificati che altre forme di aggregazione tradizionali, come le discussioni sul luogo di lavoro o in chiesa. È molto più probabile incontrare persone con idee opposte su Internet che passeggiando nel proprio quartiere.
Gli utenti navigatori sono più propensi a leggere informazioni che non rispecchiano le loro inclinazioni ideologiche e politiche: cercano lo scambio, il dibattito (spesso lo scontro) con persone di idee opposte. I navigatori sono “vagabondi ideologici” alla ricerca costante del confronto, vogliono sapere cosa succede dall'”altra parte” e non hanno timore di esplorare opinioni opposte.
Questo accadeva nell’era della Rete senza bolle.
Molti attivisti, tra cui Pariser, hanno suggerito di sabotare i sistemi di personalizzazione cancellando la cronologia web, i cookie, utilizzando l'opzione incognito, impiegando altri motori di ricerca come DuckDuckGo che utilizza le informazioni di crowdsourcing provenienti da altri siti senza memorizzare informazioni sugli utenti, ingannando il sistema di personalizzazione inserendo query di ricerca false, cliccando su like su tutto quello scritto e condiviso dagli amici e contatti. Esistono poi dei software che permettono di bucare la propria bolla, una lista non esaustiva è reperibile (11) grazie all’opera di Engin Bozdag e Jeroen van den Hoven, dell’Università Delft dei Paesi Bassi.
È un’opzione estrema, non alla portata di tutti e non risolutiva del problema perché agisce solo sulla proprio bolla. Occorre prendere coscienza che non c'è modo di tornare indietro. Il genio non può essere re-imbottigliato. Non possiamo sperare che qualche autorità intervenga per assicurare che la verità, la nostra verità, vinca. L'unico modo per rompere le bolle di chi ci è prossimo è far crescere un’altra bolla, la nostra. Una bolla alternativa di idee, proposte, narrazioni e cultura. Nella dialettica le idee migliori non vincono automaticamente. Soprattutto, nel breve periodo, frasi a effetto, troll e provocatori sono più competitivi e hanno l’indubbio vantaggio che “la quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è un ordine di grandezza più grande di quella necessaria per produrla” (12).
Sorge tuttavia un interrogativo fondamentale: come fare a introdursi nelle bolle altrui? Eduardo Graells-Garrido dell'Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, così come Mounia Lalmas e Daniel Quercia, di Yahoo Labs sostengono di esserci riusciti (13). La loro idea sfrutta il concetto di identità multipla di Sen già citato: anche se le persone possono avere punti di vista opposti su temi sensibili, possono anche condividere interessi in altri settori. Grazie ai legami deboli le reti sociali hanno la flessibilità di assorbire notizie provenienti dall’ “altro” lato con un rischio minore di creare flame rispetto alla contrapposizione diretta. Il risultato è che gli individui sono esposti a una gamma molto più ampia di opinioni, idee e persone. E poiché questo viene fatto utilizzando i propri interessi, questi finiscono per essere ugualmente soddisfatti dei risultati.
Si possono fornire raccomandazioni non intrusive su argomenti correlati a ciò che è stato postato o condiviso, contribuendo a massimizzare la copertura di temi su cui un utente potrebbe non avere informazioni. Si tratta di un riequilibrio della dieta mediale che cerca di superare i vari pregiudizi impliciti ed espliciti, una gomitata informativa che contribuisce a creare una sana dissonanza cognitiva che può essere ignorata o che può creare un disagio che spinge alla riflessione, magari inconscia. In ogni caso si concorre a fornire una visione olistica di un argomento che meglio riflette la complessità del mondo attuale.
L’esperimento mostra che le persone possono essere più disponibili del previsto alle idee che si oppongono alla loro e confermano lo studio di Gentzkow e Shapiro. Si scopre che gli utenti sono più ben disposti a ricevere raccomandazioni scritte da persone con punti di vista opposti.
Collegare le persone che condividono interessi simili è importante, ma forse lo è ancora di più quando le loro idee si scontrano.
Filippo Di Blasi <filippo.diblasi@gmail.com>
NOTE
1 Ti stupisci per Trump presidente? Allora vivi in una filter bubble, http://www.wired.it/attualita/media/2016/11/15/ti-stupisci-trump-presidente-allora-vivi-filter-bubble/ (ultima visita il 21/11/2016)
2 Bolla di filtraggio, https://it.wikipedia.org/wiki/Bolla_di_filtraggio (ultima visita il 17/11/2016)
3 Pariser Eli (2012), Il filtro. Quello che internet ci nasconde, Il Saggiatore
4 Sen Amartya (2008), Identità e violenza, Laterza
5 Pariser (2012) Cit.
6 http://www.journalism.org/2015/07/14/the-evolving-role-of-news-on-twitter-and-facebook/ (ultima visita il 18/11/2016)
7 Cohen Stanley (1972), Folk Devils and Moral Panics, Routledge
8 Bates Marcia J. (1989), The design of browsing and berrypicking techniques for the online search interface, University of California at Los Angeles, https://pages.gseis.ucla.edu/faculty/bates/berrypicking.html (ultima visita il 22/11/2016)
9 Garimella Kiran (2015), Quantifying Controversy in Social Media, Aalto University, https://arxiv.org/abs/1507.05224 (ultima visita il 21/11/2016)
10 Gentzkow Matthew, Shapiro Jesse M. (2010), Ideological Segregation Online and Offline, University of Chicago, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1588920 (ultima visita il 17/11/2016)
11 Bozdag Engin, van den Hoven Jeroen (2015), Breaking the filter bubble: democracy and design, Delft University, http://link.springer.com/article/10.1007/s10676-015-9380-y#Sec8 (ultima visita il
21/11/2016)
12 Mike the Mad Biologist (2009), The Asymmetric Advantage of Bullshit,
http://scienceblogs.com/mikethemadbiologist/2009/04/20/the-asymmetry-of-bullsh-t-and/, (ultima visita il
18/11/2016)
13 Graells-Garrido Eduard, Lalmas Mouni, Quercia Daniel (2013), Data Portraits: Connecting People of Opposing Views, https://arxiv.org/abs/1311.4658 (ultima visita il 18/11/2016)
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