Populismo e disinformatia
Quotidianamente incontriamo il termine populismo. E’
decisamente il principale protagonista della scena politica. La vittoria di Trump alle elezioni
presidenziali americane e quella del leave al referendum sulla Brexit hanno caratterizzato
il 2016 come l’anno del ritorno prepotente del populismo. Diverse analisi cercano
similitudini e differenze con il passato confrontando le esperienze dei diversi
Paesi, in altre si analizzano le definizioni possibili del populismo stesso.
Il
volume di Francesco Nicodemo, Disinformazia.
La comunicazione al tempo dei social media, uscito recentemente ci aiuta a
far luce sul fenomeno. Difficile darne una definizione. Con populismo si
possono indicare vari tipi di fenomeni. In passato è stato usato per
individuare quegli intellettuali russi che si opposero al regime zarista e al
processo di industrializzazione durante la seconda parte del XIX secolo, o per
identificare il People’s Party americano, formazione politica di sinistra a
cavallo tra Ottocento e Novecento che diede voce alle istanze degli
agricoltori. Nei decenni successivi
questo termine è stata usato per descrivere formazioni di destra e di sinistra
sparse per il mondo, accomunate dall’opposizione all’establishment e, in
generale, alla classe dirigente. Il populista concepisce una contrapposizione
tra due gruppi: un «Noi», il popolo virtuoso («the people», il popolo, è la
componente chiave dei messaggi populisti), contrapposto a un «Loro», i corrotti
o le élite. In Usa, ad esempio, la battaglia politica viene indirizzata o
contro il big government, nel caso dei movimenti di destra, oppure contro il
big business, se ci riferiamo a quelli di sinistra, a volte addirittura contro
entrambi.
Per Nicodemo la sfiducia nelle classi dirigenti,
l’opposizione al mondo della finanza, l’enfasi posta sul ruolo del popolo,
ritenuto l’unico legittimo attore politico a poter incidere sul processo
decisionale, sono i tratti che delineano il variegato e complesso universo
populista. Quando poi il populismo si lascia contagiare dal nazionalismo, vi è
anche un fermo rifiuto nei confronti dell’altro, dello straniero,
dell’immigrato e delle minoranze etniche o religiose. Argomenti quasi sempre
strumentalizzati. Molte sono infatti le corde che adeguatamente toccate
trasmettono paura e generano timori. Quali sono i motivi alla base della ricomparsa
dei populismi? Certamente le sperequazioni generate dalla globalizzazione, ci
avverte Nicodemo che si interroga anche sulle eventuali soluzioni da perseguire
per disporre di democrazie stabili. Le risposte dovrebbero giungere dalla
politica. Serve coraggio da parte dei politici per non rendere le nostre
democrazie più fragili. il World Economic Forum nel Global Risks Report 2017 suggerisce
di favorire una maggiore solidarietà e una riflessione di lungo periodo sul
capitalismo di mercato; rivitalizzare la crescita economica globale,
riconoscere l’importanza dell’identità e dell’inclusione in comunità politiche
sane, ridurre i rischi ed espandere le opportunità della quarta rivoluzione
industriale, rafforzare i sistemi di cooperazione globale. Nella seconda parte
del Report 2017, dedicata alle sfide politiche e sociali, ci si chiede se le
democrazie occidentali siano in crisi. I tre problemi che esse stanno
affrontando e che rischiano di minarne le fondamenta sono: 1) il rapido
cambiamento economico e tecnologico; 2) la crescente polarizzazione sociale e
culturale; 3) l’emergere della categoria della post-verità nel dibattito
politico.
L’ultimo problema è decisamente rilevante considerando la
spettacolarizzazione, la personalizzazione, la frammentazione e, soprattutto,
la semplificazione dei discorsi politici, in particolar modo nel nostro paese.
Viviamo in un tempo in cui il peso specifico dei social media cresce,
soprattutto per la capacità di raggiungere un pubblico sempre più ampio ed
eterogeneo a costi decisamente più ridotti rispetto al passato e il giornalismo
tradizionale manifesta la sua crisi. Oggi molti di noi sono ricchi di informazioni
ma poveri di conoscenze: abbiamo un maggiore accesso a dati e alle notizie, ma
una scarsa comprensione della natura (confusa) della realtà, della politica.
Dunque, l’eccesso informativo e la superficialità nella reale conoscenza dei
fatti è una delle questioni principali alla base della disinformazione. Tanto
occorrerebbe fare. Intanto, gli studiosi dovrebbero meglio svolgere il compito
di sintetizzare il coacervo di informazioni che raccolgono in modo da farne
un’analisi coerente e i giornalisti hanno a loro volta quello di rivederle per
distillarne qualcosa di utilizzabile dal pubblico. La presentazione delle
informazioni in maniera equilibrata è il segno distintivo di un buon
giornalismo.
Antonio Salvati
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