Per non essere schiavi delle cose. No all'obsolescenza programmata ...
“Obsolescenza programmata” è un termine astruso o, perlomeno, misterioso per i… “non addetti ai lavori”.
L'espressione è presente nel Treccani ed indica “il processo mediante il quale vengono suscitate nei consumatori, esigenze di accelerata sostituzione di beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie. Tale processo viene attivato dalla produzione di beni soggetti a un rapido decadimento di funzionalità, e si realizza mediante opportuni accorgimenti introdotti in fase di produzione (utilizzo di materiali di scarsa qualità, pianificazione di costi di riparazione superiori rispetto a quelli di acquisto, ecc.), nonché mediante la diffusione e pubblicizzazione di nuovi modelli ai quali sono apportate modifiche irrilevanti sul piano funzionale, ma sostanziali su quello formale”.
Il processo fece la prima apparizione documentata già 1932, per risollevare così i consumi, ma solo nel 1957, grazie ad uno studio del sociologo Vance Packard - famoso per aver sempre avversato i “persuasori occulti” presenti nelle pubblicità - ci fu la prima vera analisi del fenomeno . Infatti, con la pubblicazione de “The hidden persuaders” (1957, poi tradotto in italiano un anno dopo), si aprì tutto un nuovo settore di studi nel mondo della pubblicità.
Nella nostra vita quotidiana, accade che - ad un certo punto - strumenti, accessori, apparecchiature, improvvisamente si guastino, si blocchino, si “impallino”, senza più la possibilità di utilizzarli.
È divenuto, questo, un fenomeno parte integrante della “economia della crescita”, nella quale gli oggetti hanno una fragilità calcolata, una durata stabilita e, non a caso, la garanzia del bene acquistato, copre il tempo stabilito della vita effettiva stabilita alla sua realizzazione. Inoltre, quasi sempre è impossibile ripararli: o sono oggetti saldati, impossibili da smontare per intervenire, oppure il costo del lavoro e del pezzo di ricambio (tra l’altro, spesso neanche facilmente reperibile) è più elevato che ricomprare ex novo l’oggetto guasto. Così, lo si getta subito e si sostituisce con quello nuovo, magari più moderno e con funzionalità ulteriori.
Nell’ultimo decennio o poco più, lo studioso francese Serge Latouche, Professore emerito all’Università di Parigi-Sud, si è occupato del fenomeno dell’obsolescenza programmata o pianificata, e delle sue conseguenze: in particolare, attacca la spirale dell’iperproduzione che avvolge oggi l’uomo, con l’idea che bisogna consumare, acquistare, comprare l’ultimo, la novità e che già il giorno dopo l’acquisto fatto abbia già in sé il germe della vecchiaia, del fuorimoda. Nei suoi studi Latouche narra e denuncia un’economia che porta alla catastrofe dei beni che troppo presto divengono spazzatura e lasciano ai posteri masse di prodotti da smaltire, con uno stile di “usa e getta” malsano, esagerato, spesso non necessario.
Lo studioso propone anche la via d’uscita da un meccanismo del consumo irrefrenabile: cercare e mantenere una prosperità senza crescita.
Oggi, infatti, l’economia è ossessionata dalla crescita, dai punti del PIL che devono salire per non cadere nella tanto temuta recessione.
Il suggerimento che fornisce Latouche non è tanto il “pauperismo”, ma la ricerca di una vita più “frugale”, che ogni tanto consumi solo l’essenziale e non cerchi sempre il superfluo. In modo che anche la mente si liberi dall’ossessione del consumismo, dell’idea di avere tutto subito qui ed ora.
In tal modo si riuscirà a ridare il vero peso alle cose, rinunciando a diventarne schiavi e restituendo, invece, i tempi previsti di durata alle merci, la loro eventuale riparabilità, e il loro riciclaggio, cioè la pratica di regalare ad enti benefici un apparecchio, un oggetto ancora integro che non serva più, perché possa essere disponibile per altri.
Germano Baldazzi
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