Il perdono, via d'uscita persino dal lager ...
Ad Auschwitz, nel maggio 1944, sulla rampa ferroviaria affollata da migliaia di ebrei appena scesi dall’ennesimo convoglio (in questo caso giunto dall’Ungheria), un medico delle SS vede due bambine vestite entrambe di rosso e chiede: “Sono gemelle?”. Alla risposta affermativa della madre le vengono strappate. Sono salve dalla camera a gas, ma destinate a unirsi alle cavie umane sulle quali il ben presto famoso Josef Mengele compie i suoi esperimenti pseudoscientifici.
Una delle gemelle è Eva Mozes Kor, nata nel 1934 in un villaggio allora ungherese, attualmente in Romania, che avrebbe passato nove mesi nell’inferno concentrazionario prima di essere liberata e cercare il proprio posto nel mondo. Oggi Eva vive negli Stati Uniti e ha deciso di lasciarci una testimonianza di quelle che non si dimenticano.
Non solo o non tanto per il racconto dell’orrore del lager. Non solo per la storia di sofferenza di una vittima e di odio nei confronti dei suoi carnefici. Ma per quanto è accaduto a un certo punto del suo percorso esistenziale, quando Eva, ormai testimone dell’Olocausto, chiamata qua e là per delle conferenze, per delle esperienze da filmare e su cui discutere, si reca in Alta Baviera per incontrare Hans Münch, medico che lavorava ad Auschwitz.
Ed è qui che la donna, scampata al campo di sterminio, ma ancora ferita nell’animo (“Conosco l’odio. So bene che sapore ha, in tutte le sue sfumature. So come si diffonde nello stomaco e, poco per volta, condiziona anche il modo di pensare”), scopre di non essere stata veramente liberata. E che per vivere una vera e propria “storia di liberazione” (è il sottotitolo del volume che si sta recensendo: “Ad Auschwitz ho imparato il perdono”) si tratta di vincere l’odio. Senza dimenticare, ma senza continuare ad alimentare il rancore e il desiderio di rivalsa: “Fu un’illuminazione. All’improvviso scoprii di avere un potere, quello di perdonare. Avevo il potere di decidere della mia vita”.
Perdonare per Eva significa abbandonare un atteggiamento passivo, in cui la vittima è ancora plasmata dal carnefice, indotta a percorrere passi predeterminati, per quanto comprensibili, e prendere finalmente in mano la situazione. Vuol dire “far guarire le nostre ferite”, perché “una vittima ha il diritto di essere libera, ma non può esserlo se non si scuote di dosso il peso del dolore e della rabbia”. Come scrive una donna finalmente libera: “La rabbia è negativa e favorisce stati d’animo negativi. Come sopravvissuta, ritengo sia meglio impegnarmi per essere la migliore Eva possibile. Le persone che hanno perdonato hanno fatto pace con se stesse e donano pace al mondo. Per lo meno, questa è la mia speranza più grande”.
Francesco De Palma
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