Costruire la pace a partire dai bambini #pontidipace2018
Com’è consuetudine, gli Incontri Internazionali di Pace di Sant’Egidio sono caratterizzati da tanti panel. Numerosi i temi che
saranno affrontati nei 34 panel previsti, tutti caratterizzati, ha spiegato Marco Impagliazzo, “da una scelta di apertura e di dialogo”, portata
avanti da pellegrini di pace che comprende sia religiosi che laici. Leader
e intellettuali, ma sempre tra la gente, per momenti di riflessione “non riservati agli specialisti o
autoreferenziali”, ma aperti a tutti e accompagnati da una larga
partecipazione popolare.
Tra gli altri argomenti affrontati questa
mattina degno di forte interesse è stato quello riservato ai bambini, nel panel
I bambini chiedono pace, presieduto
da Mario Marazziti, caratterizzato da immagini e considerazioni dell’infanzia
ferita dalla guerra.
L’Arcivescovo di Ouagadougou, Burkina Faso, il
cardinale Philippe Ouedraogo, ha significativamente ricordato il preambolo
della Carta dell’Unesco quando afferma che “le
guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono
essere innalzate le difese della pace". Questo è possibile solo attraverso un’educazione di qualità basata non
solo sulla trasmissione di conoscenze della scienza e della fede, ma
soprattutto sulla trasmissione dei valori cardine alla base di ogni società che
rispetta la vita e dignità umana. E nel contesto attuale del nostro mondo
diviso e traumatizzato dalle diverse pretese sia culturali che religiose, il
valore del rispetto per gli altri nella loro diversità deve diventare un
obiettivo che deve essere raggiunto dai leader religiosi, ma anche dalle
politiche e quelli che decidono nel condurre gli affari del nostro mondo”. La
nostra parola per i giovani deve essere trasformata in azione e portare i semi
di unità e concordia, altrimenti avremo perso la nostra missione, ha aggiunto Ouedraogo.
Adriana Gulotta, della Comunità di Sant’Egidio,
ha iniziato la sua riflessione partendo da quei bambini, europei, che vivono in
terre dove la guerra non c’è: “sui loro
occhi quelle immagini sembrano scorrere senza suscitare reazioni, oppure si
cerca di non fargliele vedere”. Bambini e ragazzi che vivono immersi nel tempo
del “nichilismo attivo”, come l’ha definito recentemente Umberto Galimberti. Un
tempo di povertà estrema, “ma non di beni
di consumo – ha precisato acutamente Gulotta -, “quanto di valori; una sorta di crisi “culturale” perché il futuro che
la nostra cultura prospetta ai giovani non è una promessa, come era per i loro
padri, ma è sentito come una minaccia, qualcosa di imprevedibile a cui non si
riesce a far fronte”.
Si sarebbe detto alcuni fa un’“epoca delle
passioni tristi”, in cui i giovani sono vittime di una diffusa mancanza di futuro,
“ma spesso anche di senso e di legami
affettivi”. Si ricorre sempre più alle terapie farmacologiche e
psicologiche che curano le sofferenze dell’individuo, “in un deserto di insensatezza in cui il niente si profila all’orizzonte”.
Niente, nulla sembra attrarre, affascinare, ci avverte Galimberti. Il futuro appare loro imprevedibile e spegne
l’entusiasmo. Manca la risposta – aggiunge Gulotta – “al “perché” e ci si sente rifiutati in un mondo che guarda ai giovani
non come una risorsa ma come un problema”.
Quante volte sentiamo dire – talvolta in ambito
scolastico – che i nostri ragazzi sembrano privi di sentimenti. Ma il
sentimento – spiega efficacemente Gulotta, “a
differenza dell’emozione e dell’impulso (stadio a cui si fermano spesso i
bulli), non è dato per natura, ma si acquisisce con la cultura, come ci insegna
la storia: dai popoli primitivi che raccontavano i miti, ai giorni nostri in
cui la letteratura narra storie per far conoscere cos’è l’amore, il dolore, la
noia, la disperazione, la speranza, la tragedia, il senso della vita e
l’ineluttabilità della morte. Ma quando i più giovani non conoscono i
sentimenti, qualcosa di terribile è accaduto nella società. L’educazione
emotiva dei ragazzi non sembra più far parte dei compiti dei genitori, della
scuola, della società. Chi spiega loro quali sono i sentimenti che vivono e
quelli che potrebbero vivere?”.
Gulotta ha ricordato che Sant’Egidio propone un’esperienza
quotidiana di convivenza in pace, una sorta di “controcultura”: “la sollecitudine per educare alla pace le
giovani generazioni coincide con la nascita stessa della Comunità, nel 1968,
quando si iniziò a fare scuola ai bambini marginali di Roma ed è diventata oggi
una educazione quotidiana e mondiale che coinvolge centinaia di migliaia di
bambini, in Europa, Africa, Asia e Americhe. Nelle Scuole della Pace di
Sant’Egidio, oltre al sostegno scolastico e affettivo, si offre ai più piccoli
la possibilità di imparare a crescere insieme agli altri senza pregiudizi e
ostilità. Conoscere da vicino, senza timore ma con simpatia, il diverso,
semplicemente l’altro da me: lo straniero, il rom, il povero”.
Degno di forte interesse l’intervento Ruth Dureghello,
Presidente della Comunità ebraica di Roma, soprattutto quando ha ricordato la
figura del pedagogo ebreo Korczak, una figura poco nota ai tanti. Nato a
Varsavia nel 1878, Korczak è stato medico fra i più stimati del suo tempo, autore
precoce e prolifico di scritti sui bambini e per i bambini, divulgati anche per
mezzo della finzione letteraria, della messa in scena teatrale, ma soprattutto
pedagogo instancabile, dedito fino al martirio all’educazione dei fanciulli e
in particolare degli orfani. Bruno, che ha definito Korczak «uno dei più grandi educatori di tutti i
tempi» ne ha riassunto efficacemente il lascito intellettuale: «Ogni riga che egli ha scritto sul suo lavoro
con i bambini e sul suo modo di comprenderli ci convince sempre più che bisogna
guardare all’infanzia non come a una fase di sviluppo che avrà il proprio
coronamento nell’età adulta, ma come a uno stadio della vita altrettanto importante
– per se stesso e in tutti i suoi aspetti – della maturità». Tanto si
potrebbe sul suo pensiero.
Quando nel 1940 – ha raccontato più volte Bettelheim,
in diverse sue pubblicazioni ( in particolar modo in La Vienna di Freud, Feltrinelli) - la Casa degli Orfani di Varsavia fu spostata nel
ghetto istituito dai nazisti, Korczak decise di restare con loro. Rifiutò fermamente
le proposte di alcuni amici che volevano trovargli un nascondiglio nella parte
“ariana” della città. L’8 giugno 1942 Korczak e i bambini “consacrarono” la
bandiera della Casa degli Orfani, verde come la speranza e la natura. Il 18
luglio Korczak fece mettere in scena ai bambini La posta di Tagore, che
rappresenta un bambino malato, rinchiuso nella sua camera, che muore sognando
di correre per i campi. Secondo Korczak, era necessario che i bambini
imparassero ad accettare la morte con serenità. Il 4 agosto Korczak, gli altri
educatori della Casa e duecento orfani furono condotti verso ictreni nazisti.
Korczak, alla testa del corteo, teneva due bambini per mano. Gli orfani
camminavano in fila per quattro, con la loro bandiera verde. Ogni sezione era
preceduta dal suo educatore. Furono rinchiusi tutti nei vagoni e portati al
campo di sterminio di Treblinka.
Per questo la pace è una grande domanda da
accogliere e da vivere. La vicenda Korczak, insieme a quella di tanti come
quella di Tariq Kutub Uddin (impegnato con la Comunità di Sant’Egidio in un’associazione
attiva nel sostegno alla popolazione Rohingya “We The Dreamers” nella
realizzazione della “School of Hope and Peace” a Jamtholi, uno dei campi
rifugiati nella zona di Cox’s Bazar in Bangladesh, frutto della collaborazione
tra realtà cristiane e musulmane), ci insegna
che, come afferma Gulotta, “imparare a
vivere insieme nella solidarietà apre il cuore e la mente a comprendere e a
sentire la domanda di pace che c’è oggi nel mondo. Per questo i nostri centri
per bambini si chiamano Scuole della pace, ed il nostro movimento giovanile
prende il nome di “Giovani per la pace” (…) E’ un modo diverso di guardare se
stessi e gli altri, per imparare a conoscere e confrontarsi, senza fuggire nel
virtuale e senza temere l’incontro personale con chi è diverso, senza dare
spazio alle paure”.
Antonio Salvati
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