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Democrazia rappresentativa e sovranismo


L’anno da poco iniziato sarà caratterizzato dalle celebrazioni della caduta del muro di Berlino. Il crollo del muro – avvenuto dopo due secoli esatti della Rivoluzione francese – ha determinato repentinamente la fine delle ideologie che avevano dominato il sistema dei due blocchi, lo sviluppo della guerra fredda. La deflagrazione che ne è scaturita ha – come sappiamo – pienamente investito la vita dei partiti politici e le modalità di partecipazione politica.


Oggi assistiamo ad una fuga dalla politica, ad una presa di distanza dalle istituzioni rappresentative che si è progressivamente diffusa in tutto il paese. Non si esita a reclamare apertamente il superamento della democrazia rappresentativa, esaltando quella cosiddetta diretta, ammesso che sia possibile realizzarla. Porre fine alla democrazia rappresentativa per tornare a quella diretta significherebbe abolire la mediazione e riappropriarsi dei contenuti della delega per esercitarli in prima persona. Ma, oltre ad essere praticamente molto difficile o addirittura impossibile – o quanto meno molto difficile - nelle grandi società moderne. Abolire la democrazia rappresentativa per tornare a quella diretta significherebbe eliminare la mediazione e illudersi di saper riappropriarsi dei contenuti della delega per esercitarli in prima persona. L’importante questione dei contenuti della delega su cui poggiano le democrazie rappresentative rinvia al tema di cui si dibatte molto: il destino della sovranità popolare. E qui entrano in scena i cosiddetti sovranisti, i quali dovrebbero fare – a mio parere – un uso più attento all’utilizzo delle parole, che non è mai neutrale. Come negare che “sovranismo” – oltre a identificare un movimento che insiste sulla “difesa” di invalicabili confini e l’innalzamento di muri – etimologicamente parlando evoca il “sovrano”. Infatti, il sovranismo è il terreno privilegiato della destra culturale e politica.
In realtà, la sovranità costituzionale fa riferimento a precisi valori di civiltà che sono inviolabili. Il popolo – occorre ricordarlo - in costituzione non è considerato una moltitudine ribelle e non è titolare di un potere assoluto. In altri termini, non è libero di far tutto, né tanto meno ha sempre ragione. La sua sovranità, infatti, è espressamente assoggettata alle forme e ai limiti della costituzione, come recita l’art. 1 della stessa. Cominciamo, quindi, a chiarire che l’esercizio della sovranità costituzionale – al netto di ogni retorica populista – presuppone la tutela e il rispetto dei diritti fondamentali, l’eguale dignità sociale, il pieno rispetto degli individui e delle loro diversità, la necessità di operare affinché vengano rimossi gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo di ciascuno e di tutti (art. 3 della Costituzione).


Tantissimo negli ultimi anni si è discusso di democrazia in termini di partecipazione, trasparenza, controllo. Purtroppo, molto meno in termini di selezione delle classi dirigenti, formazione delle competenze, metodi di governo e quant’altro riguardo alle modalità attraverso cui la sovranità popolare può dispiegarsi in concreto. È il segnale indiretto – si è giustamente chiesto con preoccupazione lo storico Giovagnoli - di un abbandono della sovranità dal popolo e del trasferimento della titolarità del potere ad altri e non definiti soggetti? Con il tribalismo imperante stiamo smarrendo il senso vero di essere popolo, la percezione di appartenere a una comunità, la convinzione di far parte di un unico soggetto storico. Nel mondo globalizzato, l’appartenenza a una comunità (come nel caso dei cittadini di Atene nel V secolo), quali sono i popoli o le nazioni, si è progressivamente indebolita. C’è bisogno di ciò che Ernest Renan chiamava il «plebiscito di ogni giorno», ossia un implicito patto quotidiano che conferma la volontà di stare insieme.
In tal senso, sarebbe opportuno riscoprire il principio di responsabilità, così formulato da Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”. Prezioso è stato anche l’apporto del personalismo d’ispirazione biblica, che vide tra i suoi maggiori interpreti il filosofo francese Mounier. L’essere in sé della persona è alla base del suo principio della sua singolarità e della sua infinita dignità. Dice Mounier: “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto”. Questo riconoscimento dell’assoluta originalità dell’essere personale – ha osservato il teologo Bruno Forte – “garanzia del rispetto incondizionato dovuto a ciascuno. L’uso della parola riconoscimento rimanda al fatto che questi diritti devono essere considerati preesistenti rispetto alla loro prefigurazione giuridica, non creati dalla Stato, obbliganti anzi di fronte ad essi. Da una simile convinzione deriva l’esplicitazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale)”. L’attualità di tali conseguenze rinvia alla tutela di tutte le minoranze, in particolar modo al rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico.

Antonio Salvati

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