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La Giustizia. Roba da ricchi?


Le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario sono sempre l’occasione per poter trarre dei bilanci circa il funzionamento dell'amministrazione della giustizia. Quest’anno abbiamo appreso notizie importanti come quella del quasi dimezzamento del “debito pubblico” della giustizia: in 10 anni dello stock di cause arretrate si è quasi dimezzato (da 6 milioni a circa 3 e mezzo). A Roma negli ultimi anni c'è stata una drastica diminuzione degli omicidi, che ha portato la capitale a livelli davvero inimmaginabili qualche anno addietro e – pochi lo sanno - che hanno pochi paragoni nelle grandi città del mondo intero. Si potrebbero citare altri dati, non tutti positivi. 


In realtà, un tema poco affrontato è quello messo in rilievo da Elisa Pazè, magistrato, che da anni mostra quanto il nostro sistema penale, sostanziale e processuale, sia sempre più congegnato per perseguire soprattutto i poveri. Pazè ricorda che la riforma del codice penale del giugno 2017, ha accentuato le pene per reati contro la proprietà privata rispetto a quelle per i reati contro la persona e il patrimonio collettivo e sostiene che questa involuzione del sistema sanzionatorio si inserisce in un più ampio contesto di guerra ai poveri. In tal senso, ha scritto un libricino davvero molto interessante dal titolo emblematico, Giustizia. Roba da ricchi, in cui elenca le modalità con cui sono state e sono perseguite le condotte ‘antisociali’ dei poveri. Un efficace riflessione critica su queste ingiustizie che parte da una premessa interessante: nel nostro codice penale di poveri non si parla mai. Vi è un unico riferimento indiretto, non per tutelare ma per reprimere, relativo all’accattonaggio. Anche nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 i mendicanti sono visti con sfavore e collocati fra le «persone pericolose per la società», insieme ai malati di mente e agli intossicati. Nella Costituzione non si trova la parola «poveri», ma l’impegno della Repubblica all’art. 3 di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». E’ evidente che si prospetta il superamento della povertà. In maniera più esplicita altre disposizioni riconoscono ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi in giudizio; agli indigenti, cure gratuite; ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi, borse di studio e assegni; a tutti i lavoratori, una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa; a coloro che non sono in grado di lavorare e sono privi di mezzi, l’assistenza sociale. Malgrado – ricorda l’autrice - il pudore nel parlare di poveri, concetto richiamato attraverso sinonimi («non abbienti», «indigenti») o circonlocuzioni («coloro che sono sprovvisti dei mezzi necessari per vivere»), vi è un impegno chiaro finalizzato a rimuovere le cause della miseria.
Da anni, le carceri sono piene di ladruncoli, piccoli spacciatori, immigrati irregolari, oltre che – s’intende – di qualche omicida, stupratore, mafioso o camorrista. In realtà, bancarottieri, evasori fiscali, corrotti e corruttori con le patrie galere hanno poco a che fare. Ciò che per gli emarginati è la regola, per i benestanti è l’eccezione: per essi l’unica sanzione è la parcella dell’avvocato. Basta scorrere le statistiche giudiziarie per vedere la realtà impietosa del meccanismo repressivo. La legislazione recente ha giocato un ruolo importante. Infatti, a godere di tutela rafforzata sono i patrimoni individuali e ad essere conseguentemente perseguiti con particolare rigore sono i reati «di strada», abitualmente commessi da chi vive ai margini e non ha nulla da perdere: furti, scippi, rapine. Mentre – denuncia la Pazé - «debole e non adeguato è invece il presidio di quei beni – aria, acqua, suolo – che sono patrimonio comune, come se ciò che è di tutti non fosse in realtà di nessuno». Quando vanno in galera i poveri «nessuno si chiede se le intercettazioni abbiano leso la riservatezza, se sia stato violato il segreto investigativo o se la carcerazione preventiva sia giustificata, quando si sfiora qualche personaggio eccellente fioccano le polemiche contro lo straripare della magistratura, la «giustizia ad orologeria», la politicizzazione e il protagonismo di certe procure. Il colpevole diventa un perseguitato e a suscitare sdegno non è il reato commesso, ma il fatto che la televisione e i giornali ne diano notizia».
I più poveri hanno vita dura anche quando sono onesti. L’esibizione della miseria da fastidio o fa paura. Infastidiscono i mendicanti, ancora di più gli stranieri che invadono le periferie delle città italiane. Si cerca di renderli invisibili. Non si contano più i sindaci di varie città che hanno emesso nel corso degli anni ordinanze e regolamenti volti a rimuovere accattoni, lavavetri, lustrascarpe, parcheggiatori abusivi, camper dei rom, per promuovere un’estetica del benessere che esige ordine e pulizia. Il decoro urbano non può essere influenzato dallo spettacolo sgradevole degli emarginati.
Non a caso, si è coniata l’espressione «diritto penale del nemico» per indicare un vero e proprio diritto penale parallelo, riservato ai non cittadini e privato delle tradizionali garanzie che sono ormai patrimonio comune delle democrazieOsserva acutamente Pazé che «chi sta male se la prende con chi è messo peggio, i penultimi fanno degli ultimi, che concorrono alla spartizione delle briciole della torta, il proprio nemico. L’unica a non essere messa in discussione è l’iniqua distribuzione delle risorse. Anziché moti di indignazione e richieste di riequilibrio, la ricchezza desta ammirazione e invidia. Le retribuzioni stratosferiche e le mega liquidazioni suscitano scandalo solo se a beneficiarne sono i politici, considerati «casta» cui ha arriso la contingenza elettorale, non se di esse godono proprietari ed amministratori dei grandi gruppi industriali, o i loro rampolli messi a capo di banche, assicurazioni, televisioni, gruppi editoriali, società sportive, oppure – naturalmente eleganti grazie al lusso e agli agi in cui vivono – improvvisati stilisti».
Da qui il pregiudizio sociale secondo il quale che i poveri siano tutti delinquenti o potenziali delinquenti. Un processo di criminalizzazione soprattutto nei confronti degli immigrati africani e asiatici, poveri  d’oltremare che approdano sulle nostre coste alla ricerca di una vita migliore. Definendoli «clandestini» si riduce la storia di ciascuno di essi all’ingresso irregolare nel nostro territorio, trascurando il retroterra di guerre e miseria da cui sono fuggiti ed equiparando tutti in un unico gruppo trasgressivo. Il termine «clandestino» - ci ricorda la Pazé - deriva dal latino clam e dies, e significa ‘nascosto di giorno’. Fino a qualche anno fa era un aggettivo che richiamava alla mente la lotta contro il fascismo o una relazione sentimentale intrattenuta all’insaputa del coniuge. Oggi l’aggettivo è stato trasformato in sostantivo, per evidenziare l’illegalità della condotta dei migranti che vivono in Italia senza permesso di soggiorno. 
E’ evidente che esiste un chiaro disegno politico di alcuni partiti e movimenti nel drammatizzare il problema dell’immigrazione, nell’amplificare gli elementi di paura. Criminalizzare gli stranieri per conseguire un importante obiettivo: costruire un nemico che, coa­lizzando gli italiani, faccia dimenticare le cause reali delle diseguaglianze e delle ingiustizie, evocando lo spettro della disoccupazione. 

Antonio Salvati

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