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Ultimo banco


Non sono pochi i libri che riflettono su cosa sia la scuola, cosa voglia dire insegnare e cosa significhi studiare nella società di oggi. Non tutti sono, tuttavia, interessanti. O almeno non è facile trovare libri in grado di intrecciare la riflessione su cosa significhi insegnare e studiare, la narrazione, l’impegno civile e – perché no? - la battaglia per il cambiamento culturale. Floris con il suo volume Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l'Italia, uscito l’anno scorso, è riuscito a creare quest’intreccio con un saggio decisamente interessante, ricco di dati, spunti, a partire dalla propria esperienza personale (la presentazione di un suo romanzo in diverse scuole) e familiare (la madre insegnante, “la Floris”).
Dire che la scuola, negli ultimi tempi, è spesso al centro delle cronache è un’ovvietà. Le vicende che la riguardano sono per lo più negative. Con diverse vittime, soprattutto i professori maltrattati dagli alunni, dai genitori e dal sistema scolastico che spesso non aiuta.


Nel volume c’è uno spazio per ciascuno degli attori scolastici: professori, studenti, genitori. Floris con l’abilità giornalistica che lo contraddistingue mette adeguatamente insieme ricordi autobiografici (la madre insegnante, le preoccupazioni da padre), le testimonianze di docenti, le immancabili inchieste sui quotidiani, i tanti scrittori “sulla scuola” (da Starnone a Lodoli, a Raimo) e autori che la scuola ha sempre trattato (da Diogene a Manzoni, etc.). E, infine, numerose cifre, statistiche, interventi di legge, che in un saggio di tal fattura non si possono omettere mai (forniti da MIUR, CCNL, CENSIS, OCSE-PISA, etc.). In altri termini, un libro interessante e seducente, soprattutto, per chi, come me, lavora nella scuola. Per chi ancora non è del tutto frustrato da un pensiero, socialmente e geograficamente trasversale, che relega il  ruolo dell’insegnante ad un mestiere come tanti, con una credibilità sociale bassissima, le cui rivendicazioni sono spesso accolte come qualcosa di petulante e piagnucoloso. 
Alcune premesse di Floris sono assolutamente condivisibili come quando sostiene che chi ha studiato può essere un ignorante, può non capire il mondo, certo. All’opposto, attraverso il lavoro, le relazioni personali, le esperienze di ogni tipo si può acquisire una grande cultura. «Ma studiando è più facile comprendere l’esistente. Chi prima di stare “in mezzo alla gente” si è fatto un giro in mezzo alle pagine dei libri, di testo e non, lo sa. Chi pensa che il «mondo reale» non sia uno stratagemma retorico, ma un contesto complesso da interpretare, lo sa. E chi ci governa dovrebbe saperlo. Ma a guidare il Paese rischiamo di mandarci gli altri, quelli dell’ultimo banco. Per tutti questi motivi la svalutazione della scuola e il tracollo della politica, secondo me, vanno di pari passo. Un doppio fallimento che pesa più sugli ultimi arrivati della nostra classe dirigente, i più giovani. E infatti, dopo aver chiesto a gran voce che gli venisse passato il testimone, l’impressione è che non siano stati capaci di correre. La mia generazione ha (quasi) perso Immaturità, superficialità, impreparazione, improvvisazione. La classe dirigente che si è proposta per la guida del Paese negli ultimi tempi rischia di essere ricordata come approssimativa, superficiale, sempre a caccia di scorciatoie, di una battuta brillante che supplisca alla fatica di farsi un’idea approfondita su un problema. Come il compagno di scuola che non studiava e pensava di risolvere facendo lo spiritoso, o esercitando tutto il suo carisma quando veniva chiamato alla cattedra». Quello che sosteneva sempre che il problema era un altro, anche in matematica quando il problema era irrefutabilmente quello scritto alla lavagna. «I giovani leoni delle nostre aule parlamentari forse non se ne accorgono nemmeno, ma hanno fatto propria la bipartizione imposta nel ventennio passato da Berlusconi, tra simpatici da una parte e competenti però noiosi dall’altra. Intimoriti dall’idea di stare dalla parte dei secchioni, giocano tutto sulla rapidità della battuta. Mimano la velocità d’analisi, ma si esercitano in una continua semplificazione che li porta a perdere di vista il problema».
Ma torniamo ai professori che «vivono la straordinarietà dello spazio-tempo scolastico senza poter condividere questa fortuna. Loro sanno di essere protagonisti della fase più unica ed eccezionale della nostra vita, ma sanno anche che noi lo capiremo molto tardi e forse mai. (…) E l’importanza della dimensione in cui operano non verrà, quindi, mai riconosciuta davvero. Sono i classici supereroi, insomma. Vivono in incognito la missione più fondamentale e più rischiosa, mascherati da persone qualsiasi». Floris non lesina giudizi, lancia giustamente provocazioni: «Non è ovvio essere un “bravo professore”. (…) Ciò che (gli studenti) imparano da te diventa parte di ciò che sono e che saranno». Si smontano quelle che sono vere e proprie stupidaggini come quella che gli insegnanti lavorano poco: «(…) le ore di insegnamento frontale per un insegnante sono diciotto la settimana. Dire che sono le uniche ore di lavoro sarebbe come dire che io lavoro tre ore e mezza la settimana, Lilli Gruber o Enrico Mentana mezz’ora al giorno, e così via (…)».Floris ne ha anche per i genitori e come non condividere l’asserzione «con che metro i genitori possono giudicare le competenze professionali di una persona che fa un lavoro che in genere non è il loro?». Genitori trasformatisi nei «fastidiosi clienti» che sul «Trip Advisor del mondo della scuola» danno «recensioni negative», capaci di «distruggere la carriera di un insegnante»? Chi li ha investiti di un potere così grande? «I nostri politici non sono cattivi né ignoranti. Siamo noi che li disegniamo (e li vogliamo) così. Per cambiare loro, dobbiamo cambiare noi. E la scuola è l’unica istituzione in grado di cambiare le persone, se glielo permettiamo»: e perché li vogliamo così, i nostri politici (cioè ignoranti, come spesso sono)? Perché non permettiamo alla scuola di cambiarci/li? E la proposta qual è, a parte la «rivoluzione da fare nella nostra testa»? Floris – che non usa mai toni liquidatori – non propone soluzioni. Interrogativi si. Occorre comprendere che sulla scuola la responsabilità è collettiva: «la politica, le istituzioni, gli studenti, i genitori, i professori: tutti devono aver fallito almeno un colpo (…) e ciascuno di noi ha il dovere di rimediare. E se ogni ricostruzione comincia da un necessario primo passo, in questo momento il passo deve essere fatto in favore degli insegnanti». «Dobbiamo infine confrontarci una volta per tutte con il tema dell’autorità. I professori la rappresentano, i genitori prima ancora degli studenti la devono rispettare. (…) tolleranza zero con chi non merita il ruolo così importante che la società gli affida».
Il libro di Floris tratta altre questioni importanti come quella degli abbandoni e della dispersione, quello del cyberbullismo. Vorrei, tuttavia, terminare su una questione dirompente, frequentemente sollevata dagli studenti e dai genitori. Quella di credere che studiare non serve, di credere che la scuola serva esclusivamente a farti trovare lavoro. In altri termini, l’idea sottesa che la cultura è una cosa e la vita è un’altra. Una sorta di primato della prassi sulla teoria che porta inevitabilmente alla delegittimazione della scuola, ridimensionando una grande conquista, il diritto allo studio. In realtà, osserva acutamente Floris: «nel programma scolastico c’è il mondo, e una guida per interpretarlo. Se la saprai leggere, avrai molte più opportunità di vivere bene, compresa quella di riuscire a trovare lavoro. Non è una differenza da poco. Più sai, più discipline conosci, più problemi risolvi. Cosa sono le “materie”, in fondo, se non gruppi di problemi da risolvere? Problemi connessi uno all’altro, più connessi tra di loro che ad altri. In fisica, in biologia, in matematica, in storia e in letteratura siamo sempre e solo davanti a tentativi di mettere insieme fenomeni che intendiamo spiegare ipotizzando chiavi di lettura più o meno convincenti. E a questo punto va smontato un altro falso mito. Sono convinto che non esistano materie più importanti di altre: dipende dai problemi che incontrerai nella vita, e chi può prevedere quali saranno? Chi può affermare che i problemi che sono considerati tali nel momento in cui scegli la scuola superiore, un corso di laurea, saranno gli stessi che tu o la società nel suo complesso dovrete affrontare quando cercherai lavoro, quando metterai su famiglia, quando sarai costretto a trasferirti in un’altra città o in un’altra nazione? E come fai a separare nettamente gli ambiti delle discipline di cui avrai bisogno? O di cui avrà bisogno il mondo in cui vivrai?».

Antonio Salvati

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