La “società foggiana”, mafia sottovalutata
L’uccisione del carabiniere Vincenzo Di Gennaro ha riportato
l’attenzione sulla mafia foggiana. Fenomeno decisamente sottovalutato. Eppure la
mafia foggiana uccide più della camorra, è la più cruenta,
quella che uccide e che piazza ordigni. I dati della polizia confermano: Foggia
è tra le emergenze principali. Spaccio di droga e racket costituiscono le
maggiori fonti di guadagno. La Dia, in un recente rapporto, ha rilevato che le
principali consorterie foggiane hanno tutte confermato il massimo interesse
verso la gestione (diretta o per il tramite della delinquenza comune) del
mercato degli stupefacenti, che vanno dalla produzione e l’approvvigionamento, allo
spaccio ed alla distribuzione, anche extraregionale, confermando un’evoluzione
del fenomeno mafioso foggiano verso posizioni paritetiche con altre
organizzazioni mafiose più strutturate. Oltre al traffico degli stupefacenti, i
settori in cui risultano operare le organizzazioni mafiose foggiane (che, anche
nel semestre in esame, hanno dimostrato una grande disponibilità di armi), sono
le estorsioni e l’usura, che vengono esercitate anche attraverso una pressante
azione intimidatoria, soprattutto nei confronti degli operatori del tessuto
socio-economico (commercio, edilizia, turismo ed agricoltura).
Certamente, le mafie foggiana e garganica non hanno la fama cinematografica e letteraria di
Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Non celebrano riti di affiliazione. Non
hanno quel fascino malato che – attraverso tante fiction sulla mafia e sulla
camorra - incolla la gente davanti alla tv, come attestano gli indici di
ascolto.
Piernicola Silvis, ex questore di Foggia, da anni racconta della
paura di imprenditori e negozianti che, se possono, fuggono da quella che non è
una terra staccata dal continente, come la Sicilia, né è nascosta come la
Calabria. Di “mafia sottovalutata” ricordo di averne parlato con Rosy Bindi nel
2017, dopo aver fatto tappa a Foggia, presiedendo un incontro in Prefettura in
qualità all’epoca di Presidente della Commissione nazionale antimafia. Mi parlò
di “mafie condizionanti, cresciute perché
a lungo negate“. Nella provincia di Foggia - la seconda d’Italia per
estensione, pochi lo sanno - esistono tre mafie,
che nulla hanno a che vedere con la Sacra Corona Unita (confinata, per ciò che
ne resta, nel Salento, a 300 chilometri da Foggia): la mafia di Cerignola, dedita per tradizione alle rapine a blindati
portavalori in tutto il Paese; la mafia del Gargano, che assedia
Vieste controllando le estorsioni ai siti turistici e gestendo il traffico di
droga e, infine, la “Società Foggiana”, la criminalità organizzata di Foggia
e San Severo, due centri da 160.000 e 55.000 abitanti,
la cui mafiosità è attestata
da varie condanne per 416-bis. Antonio Basilicata, comandante provinciale dei
carabinieri, spiega le differenze: «La
criminalità garganica è a struttura familiare e fa riferimento alla
’ndrangheta. La mafia foggiana, che si estende anche a San Severo, è costituita
da batterie che fanno capo a un vertice, poi c’è un consorzio di capi stile
camorra napoletana. La criminalità cerignolana si occupa prevalentemente di
rapine e traffico di droga». Per Silvis, “le bombe del foggiano non sono solo intimidazioni del tipo “Tu non
paghi, io ti faccio esplodere il negozio”. Nel foggiano l’ordigno è
diventato un mezzo di comunicazione. Serve per far capire di aver ricevuto
un’offesa o uno sgarro, un “ricordati che
devi pagare”. Le bombe servono perfino a eliminare la concorrenza scomoda,
come è successo, o anche solo per ricordare alla gente chi controlla il
territorio. Il boato è sordo e lungo, ma lo sentono tutti. Nel foggiano si
spara, eppure nessuno ne parla. Il foggiano, soprattutto nei duecento
chilometri di strade tra Foggia e il Gargano, non è solo la terra di Padre Pio,
gli ulivi, la mozzarella buona e il mare azzurro.
Dicevamo dello spaccio della droga e del racket come le
principali fonti di guadagno. Soprattutto il racket. Per Silvis, l’80% dei
commercianti foggiani paga il pizzo. Ma praticamente nessuno lo denuncia. Otto
negozi su dieci. Cioè tutti. «Omertà,
paura, disabitudine alla legalità. Tanto che con la procura stiamo cercando di
trovare un modo per accusare di concorso esterno i commercianti che non
denunciano il racket. Loro e gli imprenditori edili. Perché qui ogni volta che
si apre un cantiere la richiesta di pizzo è automatica». Peccato che il
concorso esterno sia pieno di fragilità legali in generale, figuriamoci in
questo caso, aggiunge Silvis.
Tanta omertà e connivenza, come denunciò Alessandro
Leogrande, giovane giornalista e scrittore recentemente scomparso, nel suo
volume Uomini e caporali. Viaggio tra i
nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Feltrinelli, 2016), che raccontò di un
sotto-mondo inquietante, che va da gravi forme di ipersfruttamento lavorativo a
casi di vera e propria riduzione in schiavitù, per come questa è contemplata
dall’articolo 600 del codice penale (tale norma è stata profondamente
modificata prima con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, in attuazione della
direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta
di esseri umani e alla protezione delle vittime).
Non occorre soltanto un incremento di forze di polizia. Serve
un profondo mutamento culturale. L'omicidio del maresciallo Vincenzo Di Gennaro e il ferimento del suo collega Pasquale Casertano sono apparsi "totalmente privi di motivazioni". Tuttavia, è episodio che non va sottovalutato. Esprime una situazione drammatica sotto il profilo culturale. Per il Procuratore di Foggia quello che colpisce è "l'atteggiamento culturale che porta a reagire a dei controlli e a sparare contro lo Stato: tutto questo esprime un livello di avversione verso lo Stato. In questa mentalità ci vedo il collegamento con la criminalità organizzata" La legalità del noi contrapposta alla legalità
dell’io, per stare a un’espressione coniata dal sostituto procuratore Giuseppe
Gatti della Dda di Bari. Un’idea che fatica a diventare progetto. Come l’appoggio
di pezzi di società che fanno il vuoto attorno a quei pochi che hanno il
coraggio di denunciare, di opporsi. «Mi
gridano “infamona” e molti clienti non
vengono più», ha raccontato Giovanna, titolare di una pizzeria e donna
solida, pratica, che pochi anni fa ha sconfitto un tumore al cervello. La sua
pizza al taglio era una meraviglia (lo è ancora). Centinaia di clienti. Ottimi
prezzi e ottimi affari. Poi è arrivata la mafia. «Mi hanno imposto di comprare la mozzarella da loro». Lei lo ha
fatto. Solo che la mozzarella faceva schifo. E la pizza peggio. Si è ribellata.
Una storia esemplare e significativa. Come significativa è stata la marcia di 40mila
persone che il 21 marzo 2018 a Foggia hanno celebrato la memoria delle vittime
delle mafie nella giornata organizzata da Libera, scandendo canzoni e slogan
come "Foggia libera", urlato dai bambini delle elementari arrivati
alla marcia con i grembiuli blu.
Antonio Salvati
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