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Gaza, la pace che manca


Ancora una tregua in atto tra Israele e Hamas, siglata nella notte tra domenica e lunedì 6 maggio, dopo l’ennesima grave escalation di violenza tra palestinesi e israeliani. Con il solito copione:  razzi e colpi di mortaio sono partiti da Gaza, seguiti da dure rappresaglie, con raid aerei e forze di terra, da parte di Israele. All’indiscussa prevalenza militare di Tsahal (le forze armate israeliane) si accompagna sempre la diffusione mediatica di Gaza - sostenuta (sempre meno) dallo sdegno internazionale - con l’ostensione delle spoglie dei propri "martiri". E’ un conflitto che in maniera intermittente dura da diversi anni: nel 2008-2009 (operazione Piombo fuso), nel 2012 (operazione Pilastro di difesa) e nel 2014 (operazione Margine di Protezione). L'ultimo durò 50 giorni e lasciò sul terreno oltre 2.200 morti, in un clima drammatico seguito da una serie di odiosi rapimenti e uccisioni di adolescenti, da entrambe le parti. All'inizio del mese scorso, in vista delle elezioni del 9 aprile, una tregua era stata raggiunta da Israele e i gruppi militanti palestinesi sotto l'egida di Egitto e Onu, portando a una relativa calma che si è però interrotta la scorsa settimana.


Questa volta Hamas, incartapecorito elefante politico che da anni detiene il potere politico a Gaza, ha lasciato che fosse la Jihad, il Movimento islamico rivale, a trascinarla nell’ennesimo scontro con Israele. Proprio mentre Netanyahu, dopo le elezioni del 9 aprile, è in procinto di formare un governo, cercando un accordo con quei partiti di estrema destra che già lo rimproverano per la mancanza di una decisa reazione nei confronti del terrorismo di Hamas, come fecero lo scorso dicembre provocando la crisi di governo. Secondo diversi analisti per una ragione prettamente economica. Il denaro serve sia a Yahya Sinwar, formalmente il capo politico e militare di Hamas, che a Ziad Nahala, la figura carismatica dei jihadisti di Gaza. Quest’ultimo è stato certamente colui a lanciare l’ultima offensiva, Non solo con lo scopo propagandistico di mettere in crisi il nascente nuovo gabinetto Netanyahu alla vigilia delle annuali celebrazioni della nascita di Israele e conseguentemente sabotare il difficile processo di pace. Ma soprattutto  di permettere ai soldi dal Qatar, bloccati da Israele, di arrivare nella Striscia. Come ha osservato Ferrari sulle pagine di Avvenire, rispetto alle donazioni che giungono da varie parti del mondo, quelli del Qatar sono soldi veri: in aggiunta ai circa 700 milioni già erogati dal 2012 al 2018 (ma dal 1994 a oggi la cifra corrisposta dai vari donatori raggiunge i 31 miliardi), lo sceicco Mohammed al-Thani ha stanziato lo scorso ottobre un prestito di 150 milioni di dollari (90 per gli stipendi degli impiegati pubblici, 60 per servizi, carburante e assistenza sanitaria) destinato alla Striscia: 15 milioni al mese, che certo non leniscono la cronica disoccupazione giovanile né mitigano (semmai la peggiorano) la corruzione dilagante, ma che comunque consentono ad Hamas di mantenere una parvenza di consenso nella sovraffollata enclave palestinese e alla Jihad di acquistare armi e dotarsi di macchinari sofisticati come le escavatrici "made in Germany" con cui si creano le centinaia di tunnel sotterranei dove far transitare dall’Egitto persone, merci, denaro contante e anche migliaia di razzi fabbricati in Iran.
Di quel ingente flusso di denaro resta ben poco per i quasi due milioni di abitanti della Striscia, dopo la spartizione fra i membri della nomenklatura di Gaza City e quelli della  Jihad. Come sostengono da tempo molti giovani di Gaza (le cui proteste sono puntualmente represse dai servizi di sicurezza) con quei soldi si potrebbero costruire ospedali, scuole, fognature, depuratori. Ma Hamas, che prima di conquistare il potere a Gaza nel 2007 accusava l’Olp e l’Autorità Nazionale Palestinese di essere un clan di corrotti, di quel denaro ha bisogno per la propria sopravvivenza. Come al’Anp di Abu Mazen, Hamas è di fatto un potere politico a cui tutto sommato lo status quo conviene. Del resto, non pochi dirigenti israeliani non nascondono quanto questa situazione conviene anche a Israele. Infatti,  fin quando la Striscia resterà una prigione a cielo aperto gestita da Hamas, Israele potrà continuare a eludere la questione palestinese. Sarà la Jihad, l’ala radicale, a continuare questo conflitto, apparentemente dormiente. Magari, con la benedizione di Teheran.
Sembra interessare poco il bilancio di vite (25 i morti tra i palestinesi, tra cui due donne incinte e un neonato, e 4 tra gli israeliani) ai cinici protagonisti del conflitto della cinta muraria che avvolge la Striscia di Gaza. In fondo, lo sblocco dei fondi del grande elemosiniere del Golfo valgono bene un fine settimana di sangue.

Antonio Salvati

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