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Aiutiamoli/ci a casa loro


Aiutarli a casa loro” per anni è stato lo slogan di presa facile della destra. Ora è diventato il mantra di quasi tutte le forze politiche. Lo ha detto più volte Renzi quand’era Presidente del Consiglio e anche diversi esponenti del M5S lo declamano. Potremmo dire uno slogan carino da pronunciare. Anche se, talvolta, ha avuto l’obiettivo di mettere a tacere la coscienza di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta. In fondo, è un modo per dire che tanto cattivi non siamo, né egoisti, anzi – in ottemperanza del Vangelo (oggi ritornato prepotentemente di moda nelle manifestazioni politiche e non) – scegliamo di aiutare il prossimo. Però decidiamo noi dove e come.
C’è chi - in virtù anche di incarichi istituzionali precedentemente ricoperti – ha le idee chiare su come aiutare a casa loro, aiutando anche noi stessi. Si tratta di Mario Giro, esperto di questioni africane come pochi, che di queste vicende ci informa compiutamente da tempo.


In Africa – spiega Giro, professore di Storia delle relazioni internazionali all'Università per stranieri di Perugia - si sta svolgendo una grande guerra commerciale: un triangolo di influenze tra Cina, Europa e Usa, che potrebbe anche dirsi quadrangolo se si conta la Russia in piena ripresa di influenza. Infatti, «i poteri politico-commerciali sanno che nel continente nero sono nascoste enormi risorse in termini di acqua, terra, minerali ed energia. Occorrono solo i denari per sfruttarle. Di business se ne farà dunque tanto negli anni a venire: innanzi tutto in agro-business. L’Africa è l’unico continente dove rimane terra coltivabile libera: 200 milioni di ettari liberi ( fatte salve le foreste che non andrebbero toccate). Per nutrire il pianeta ci sarà assoluto bisogno di mettere quelle terre in produzione: un “oro verde” ormai raro. Ma per farlo ci vuole del metodo, non il land grabbing selvaggio e in ordine sparso attualmente messo in atto dalle multinazionali del food». Avverte sempre Mario Giro che «sarebbe un miracolo se il settore agro-business italiano si organizzasse (si tratta di migliaia di Pmi) per fare un’offerta aperta a questa “Africa verde”. In teoria le nostre piccole e medie imprese sarebbero molto più accettate dagli africani che non i colossi anonimi, come Nestlé e Danone. Si tratterebbe di insegnare a produrre e creare la catena del valore alimentare. Possiamo farlo ma ci stiamo organizzando per questo? È un’ipotesi win-win: aiuterebbe le nostre piccole imprese del settore a crescere e internazionalizzarsi ma anche gli africani a “produrre a casa loro”, imparando le regole itosanitarie per esportare».
Un altro settore importante è quello dell’energia rinnovabile dove l’Enel sta facendo bene. Occorre un modello di elettrificazione adattato al continente, considerando che il continente africano è sottopopolato e vastissimo, ma sostanzialmente vuoto. Pertanto, servono rinnovabili adattate, più che enormi tralicci stesi per migliaia di chilometri. Per quanto riguarda logistica e infrastrutture da trasporto sappiamo che Salini costruisce dighe ovunque; i cinesi si occupano di ferrovie; il francese Bolloré di porti. Occorrono tuttavia anche strade medie e logistica intermodale, settore dove la situazione è anarchica. Nel 2016 l’Italia è stata la terza fonte di investimenti nel continente, dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti: un fatto storico. Il passaggio dalla ventunesima posizione del 2014 alla terza, testimonia gli sforzi che hanno portato molte nostre società ad acquisire quote rilevanti del mercato africano e a vincere appalti. Le missioni italiane imprenditoriali in Africa sono aumentate. Tuttavia occorre un rafforzamento del sistema e degli strumenti per aumentare la forza d’urto: la nascita di operazioni di partenariato imprenditoriale necessita di tempo e di mezzi adeguati. La nuova cooperazione (che la legge 125 del 2014 permette) non può fare a meno di coinvolgere il settore privato nazionale nell’aiuto allo sviluppo per tentare di rendere sostenibili nel tempo le iniziative e autonomi sul mercato i loro protagonisti, ha ben spiegato Mario Giro in un recente articolo su L’Espresso.
“Aiutarli a casa loro” può diventare il risultato di una connessione tra privati e cooperazione, tra internazionalizzazione di Pmi italiane e nascita di una vera imprenditorialità africana. Occorre muoversi in fretta,  avverte Giro. Le imprese italiane coinvolte in queste iniziative sono ancora pochissime.

Antonio Salvati

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