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Vivere per sempre


Autorevoli recensioni hanno accompagnato l’uscita dell’ultimo libro di Vincenzo Paglia, Vivere per sempre. L'esistenza, il tempo e l'Oltre. Si tratta di un libro davvero straordinario – considerato l’attuale clima culturale – che, come il titolo lascia intendere, invita a riflettere sulle cose ultime, lanciando una coraggiosa sfida: «non cediamo al silenzio sulle cose ultime». Infatti, tutto il volume è attraversato da un fil rouge: non affrontare temi come la morte significa condannare il mondo a una codarda accettazione di un destino senza futuro. Infatti, potremmo dire che il futuro non esiste se non va oltre la morte, se tutto ciò che c’è in noi, l’intelligenza, la creatività, il sentimento di giustizia e quant’altro muore con il nostro corpo. Evidentemente per Paglia la vita non è solo una parentesi fra due nulla, come scrisse Sartre. Le «cose ultime» sono quelle che avvengono al termine dell'esistenza umana e le conferiscono il sigillo della definitività. Nel linguaggio cristiano esse assumono diversi nomi come morte, resurrezione, giudizio, eternità: parole poco familiari nella nostra cultura, assai taciturna sulle questioni «ultime». Parole – diciamoci la verità – che suscitano normalmente, nella migliore delle ipotesi, un senso di intimorita estraneazione. Eppure per i cristiani la resurrezione è  l'evento cardine, contenuto originale della fede cristiana sulle «cose ultime». Grazie ad essa, che già conosciamo in Gesù Cristo, l'uomo – direbbe Romano Guardini - entra nell'eternità di Dio: «Mai come nel messaggio cristiano – aggiunge il teologo tedesco, tra i più significativi del XX secolo - si attribuisce tanta grandezza all'uomo, nessun'altra dottrina prende tanto seriamente l'uomo, e mai come per mezzo di Cristo le cose create, che esistono nella temporalità, s'innalzano con tanta risolutezza verso Dio e sono assunte in lui. E tutto questo in un modo che nulla ha del mito o della favola, ma con una serietà divina, della quale è garante il destino di Cristo». Non sono un teologo. Eppur mi viene da dire che il libro di Paglia andrebbe annoverato in un canone – cioè in una sorta di libri imprescindibili o comunque fondamentali – della teologia delle cose ultime.


Il libro di Paglia è in parte incentrato sulla malattia. Le pagine ad essa dedicate chiariscono che il male non viene da Dio. Al contrario, Dio ha inviato il suo stesso Figlio per contrastarlo sino a sconfiggerlo. Non a caso, la maggior parte dei miracoli compiuti da Gesù riguarda la guarigione dalla malattia e persino dalla morte. Gesù – precisa Paglia - è venuto per guarire e salvare. La sofferenza fa parte della vita e Gesù stesso l’ha sperimentata in prima persona. E Gesù – come ebbe a dire il cardinale Martini - non ha inventato la croce. L’ha trovata anche lui sul proprio cammino, come ogni uomo: «la novità che egli ha introdotto è stata quella di mettere nella croce un germe d’amore». E’ decisivo, quindi, considerare la prossimità alla sofferenza umana come una dimensione essenziale per l’intera società. Nella enciclica Spe Salvi Benedetto XVI afferma: «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna». Per questo la sofferenza – sottolinea acutamente Paglia - può essere trasformata in un’occasione di crescita dell’amore. La fede non invita a rassegnarsi al dolore, «semmai aiuta a combatterlo e, se possibile, a eliminarlo. L’amore sprigiona una forza di risurrezione, nel senso che sempre cura anche se non guarisce, sempre “salva” perché supera i limiti della debolezza e della malattia». È forte la convinzione che di fronte alla forza del male e della malattia siamo impotenti. In realtà, la vicinanza affettuosa fatta di gesti – non importa quanto siano piccoli se pieni di amore – ha una forza nascosta ma efficace di guarigione e di consolazione, ci spiega Paglia. Gesù ne ha dato per primo l’esempio.
Anche la sofferenza ha un suo senso spirituale, ci avverte Paglia. Il dono della grazia non è la sofferenza, come talvolta si è creduto nel passato, quanto piuttosto il legame d’amore che attraverso di essa si instaura. Quanti hanno creduto che il male sia una conseguenza del proprio peccato e che Dio dia quello che ciascuno si è meritato per il male compiuto. E’ una concezione malsana di un Dio giudice e di una vita maledetta. Tuttavia, sono domande che chiedono attenzione, ascolto, amicizia, abbraccio di amore. Personalmente, non è la prima volta che leggevo queste considerazioni di mons. Paglia. Ho avuto il privilegio, agli inizi degli anni novanta, insieme ad alcuni amici della Comunità di Sant’Egidio con i quali ci occupavamo di malati di AIDS, di poter ascoltare preziose riflessioni dell’allora parroco della Basilica di Santa Maria in Trastevere. Riflessioni preziose che mi hanno aiutato anche ad affrontare la recente grave malattia di mia moglie e che mi spingono ad scrivere queste poche righe con profondo senso di gratitudine.
Sappiamo quanto Giobbe non smetteva di parlare con Dio e di porgli domande. E c’è anche chi vuole essere liberato dalla colpa di continuare a vivere pur essendo malato. In chi soffre c’è una profonda domanda di una vita di bene, ove il male e la morte vengano vinti dall’amore. Ciò che conta infatti è – ha osservato acutamente Giuliano Amato - che né il credente né il non credente rifiutino la terapia dell’amore. Ciascuno può praticarla.

Antonio Salvati

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