La Mafia garganica. Un’inedita inchiesta sulla quarta mafia di cui si sente poco parlare
Da diversi anni in Italia non esistono più soltanto la mafia siciliana, la
camorra e la ’ndrangheta. Esiste una quarta mafia. Sicuramente la meno
raccontata e conosciuta che qualcuno erroneamente continua a confondere con la
Sacra corona unita che opera nel Salento.
Eppure, dopo la ’ndrangheta è la più potente. E anche la più feroce. Nelle
terre che si estendono dal promontorio del Gargano a Cerignola,
fino a Foggia e San Severo, la mafia foggiana ha il proprio
ambito d’azione ed i suoi tentacoli sono ormai estesi in un enorme giro
d’affari internazionale.
Una violenza arcaica e bestiale
I suoi membri firmano gli omicidi sparando al volto della vittima, perché
deturpare le sue sembianze significa cancellarne la memoria. Della vittima,
poi, leccano il sangue. Fanno sparire i cadaveri dandoli in pasto ai porci –
per forza predatoria e per omertà. Si nasce, si cresce e si muore nel culto
della vendetta.
Sangue chiama sangue. In altri termini, «t’aggh’ mangià ’u cor’» (da
un colloquio intercettato tra due boss del Gargano).
Pertanto, grande merito ai due giornalisti di “La Repubblica” Carlo
Bonini e Giuliano Foschini che con il loro volume recentemente uscito Ti
Mangio il cuore (Feltrinelli), in un'inedita inchiesta, in cui si
portano alla luce gli sconcertanti delitti e le inenarrabili stragi compiute
dalla mafia del Gargano, hanno sollevato l’attenzione del grande pubblico di
una vera e propria catastrofe civile che è stata ignorata troppo a lungo.
La Capitanata: terra di santi, terra di sangue
Attraverso atti giudiziari, tra cui testimonianze e le dichiarazioni di
alcuni investigatori, gli autori raccontano di una mafia di cui si sente poco
parlare. Dagli anni settanta a oggi si sono contati oltre 350 omicidi. Tutto
questo mentre nel nostro paese dal 1992 il numero dei morti ammazzati è
drasticamente diminuito.
La Capitanata – ci spiegano i due autori – «è un lembo d’Italia di
settemila chilometri quadrati che comprende la città di Foggia, la sua
provincia (la seconda più estesa del Paese) e i comuni del vicino promontorio
del Gargano. Gli antichi greci la chiamavano Daunia, la terra degli iapigi.
Fino al Risorgimento è stato un distretto amministrativo del Regno di Sicilia,
del Regno di Napoli e del Regno delle Due Sicilie.
La Capitanata è terra di santi. Ogni anno, 6 milioni di pellegrini visitano
la chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo. È lo stesso numero di fedeli che
si recano a Gerusalemme.
La Capitanata è terra di sangue. Negli ultimi trent’anni, si sono contati 360
omicidi, l’80 per cento dei quali è rimasto irrisolto. Gli omicidi hanno
tutti un tratto comune: le vittime, in nove casi su dieci, sono state sfigurate
in volto dai loro assassini.
Tra il 2017 e il 2018, nella sola provincia di Foggia, si è
registrata la media di un omicidio a settimana, una rapina al giorno,
un’estorsione ogni quarantotto ore. L’80 per cento dei commercianti e degli
imprenditori paga il pizzo, il più delle volte anticipando le richieste
degli estorsori.
La prima e unica associazione antiracket locale, la “Giovanni Panunzio”,
ha visto la luce nel 2015 per iniziativa di sedici giovani imprenditori, dieci
dei quali sono donne».
Per anni, Foggia e la sua provincia sono risultate al primo posto nelle
statistiche nazionali della percentuale di omicidi commessi rispetto alla
popolazione residente. La presenza di insediamenti turistici in area garganica
marina – spiega un magistrato «induce i criminali ad attingere il
pagamento di somme di denaro o altri benefici con metodi estorsivi.
La presenza di numerosi turisti nei periodi delle vacanze estive, tale da
rendere elevato il consumo di droghe, fa sì che alla precedente attività di
contrabbando di tabacchi lavorati esteri si siano sostituiti l’importazione e
il traffico di droghe. La conquista dell’esclusiva del mercato del crimine si
realizza con omicidi.
Indagini recenti hanno evidenziato collegamenti della criminalità
organizzata foggiana con narcotrafficanti albanesi e con la criminalità campana
per il traffico illegale di rifiuti (300mila tonnellate accertate nel
procedimento ‘Black Land’ e 100mila in ‘In Daunia Venenum’)».
Una mafia senza nome
La mafia garganica non ha nome. È stata riconosciuta come tale dalle prime
sentenze della Cassazione solo a metà degli anni duemila. A lei ci si riferisce
genericamente come la “Mafia dei Montanari”. Coesiste con la confinante mafia
foggiana, definita “Quarta Mafia” o “Società”. Si tratta di una mafia capace,
nel tempo, di coniugare la tradizione con la modernità.
E la tradizione è quella tipica di un’organizzazione come la ’ndrangheta.
Quella del familismo mafioso. In altri termini, nel foggiano, il vincolo di
mafia è vincolo di sangue. E il vincolo di sangue è il vincolo di famiglia.
Dunque, per proprietà transitiva, mafia e famiglia sono la stessa cosa.
Coincidono perfettamente.
Per questo la mafia foggiana non prevede riti di affiliazione. Perché il
vincolo del sangue, quello imposto dalla nascita, è primigenio e riassume in sé
l’altro.
Senza testimoni e collaboratori di giustizia
Il libro copre l'arco temporale di circa vent'anni, illustrando alcune
faide che hanno avvilito la zona, come quelle tra i Romito e i Li Bergolis e
tra i Tarantino e i Ciavarella. Una sorta di «viaggio agli inferi» nel fenomeno
mafioso del foggiano. Ad eccezione della pentita Rosa Lidia Di Fiore –
la cui vicenda è davvero emblematica – non vi sono collaboratori di giustizia.
Due giovani criminali – seppur avvisati dalle forze dell’ordine delle loro
condanne a morte decretate dai clan avversi – preferiscono finire
ammazzati piuttosto che aderire ad un piano di protezione. Non abbiamo
collaboratori di giustizia, lamentano i magistrati. E quando qualcuno ci prova,
la famiglia lo molla. La collaborazione non regge se non c’è la famiglia a
sostegno.
Solitamente le famiglie mollano i collaboratori e dunque i collaboratori
crollano. Non si hanno testimoni. I magistrati che operano nel foggiano
lamentano anche l’assuefazione all’illegalità diffusa.
L’assuefazione è il difetto della cultura della legalità. Quella che
impedisce di comprendere davvero cosa sia lo Stato. Giustamente è stato
osservato che a Casal di Principe è stato eletto, con il 68 per cento dei voti,
un sindaco che, per anni, ha urlato contro la camorra dei Casalesi. I ragazzi
di Corleone sono un giorno scesi in piazza dandosi la mano contro Cosa Nostra.
A Napoli, ci sono preti anticamorra. E nel foggiano?
Il controllo di ogni settore economico
Non esiste comparto economico strategico della Capitanata – spiegano gli
investigatori - che non sia infiltrato o comunque in ostaggio. L’edilizia resta
quello tradizionale, ma c’è anche il turismo, con il fenomeno delle guardianie
e delle aggressioni ai villaggi turistici di Vieste sul Gargano.
L’agricoltura, soprattutto nella attività di riciclaggio nel settore della
viticoltura e del vinicolo. Inoltre, il racket del pomodoro, con la Princes,
una delle più grandi aziende di trasformazione, la cui area di parcheggio,
durante il periodo della raccolta, diventa oggetto di una straordinaria
pressione estorsiva.
E il grano, di cui gli inquirenti hanno scoperto che la società che curava
la logistica nell’ex stabilimento della Barilla era sotto il pieno controllo
mafioso. E spesso l’imprenditore diviene prigioniero della mafia, passando da
una condizione di vittima completamente piegata dalla paura a quella di vittima
convivente e connivente con i suoi carcerieri.
L’isolamento delle vittime
Infatti, la forza della mafia scaturisce anche dalla sua capacità di
isolamento delle sue vittime.
Il 9 agosto 2018, giorno della prima commemorazione della strage di San
Marco in Lamis – quella in cui persero la vita i fratelli Luigi e Aurelio
Luciani, colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato, assassinati nella mattina
del 9 agosto del 2017 dopo l’esecuzione del boss di Manfredonia Mario Luciano
Romito e del cognato e autista Matteo De Palma - e dell’inaugurazione della
stele alla memoria dei fratelli Luciani, il nostro ministro dell’Interno era
sulla barca di un suo amico, a scattare selfie con la sua
compagna di allora nel mare blu del Gargano, come ci ricordano gli autori del
libro.
Vacanze sul Gargano, negli ultimi anni, non ne hanno fatte i magistrati
della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Gli arresti sono stati
centinaia, decine le condanne a lunghe pene detentive passate in giudicato con
il riconoscimento del carattere mafioso della criminalità organizzata foggiana.
In pochissimi se ne sono accorti. Il pezzo di Stato che combatte questa guerra
sul serio – nella discrezione, senza fanfare di sorta - promette che è soltanto
l’inizio.
Antonio Salvati
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