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Mussolini ha fatto anche cose buone?


In Italia abbiamo avuto e continuiamo ad avere una folta schiera di storici che hanno indagato il fascismo e la figura di Mussolini in tutti i suoi dettagli. La grande maggioranza di essi sostiene che il fascismo è stato un regime dispotico, violento, miope e perlopiù incapace.
Malgrado l’acclarata malvagità assoluta del Ventennio conviviamo da decenni con il senso comune di una sua presunta bontà parziale con una infinità di sciocchezze, forzature, manipolazioni che la cultura democratica del nostro Paese non è (ancora) riuscita a sradicare. Anzi. Oggi è forte il rischio che quel senso comune si strutturi e acceda a ambiti del discorso pubblico dai quali per decenni era stato tenuto a distanza di sicurezza.


Solo pochi idioti possono negare che il regime fascista si rese responsabile di un genocidio in Libia, utilizzò armi chimiche contro la popolazione civile in Etiopia. E non solo. Concepì e promulgò le leggi razziali che causarono deportazioni di massa e milioni di morti nei forni crematori. Eppure Mussolini ha fatto anche cose buone. E’ una sorta di mantra che sentiamo ripetere da decenni, personalmente da quando ero adolescente soprattutto dagli anziani. Un’affermazione che ha dato efficacemente il titolo a un volume di Francesco Filippi Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (Bollati Boringhieri, 2019).
Sono decisamente varie le falsità e – potremmo dire – le fesserie che ancora capita di ascoltare e che alacremente girano in rete. Alcune veramente grossolane come quella che Mussolini concesse il voto alle donne, che erano ammesse alle votazioni solo per piccoli referendum locali mentre erano del tutto escluse al voto per le elezioni politiche. La prima volta che le donne furono ammesse al voto – com’è noto - fu al referendum del 1946. Un’altra falsità è quella relativa alle pensioni. Chiariamo subito: il duce non ha creato le pensioni. Infatti, la previdenza sociale nacque nel 1898 con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, seguendo il modello introdotto per la prima volta in Germania nel 1888 da Bismarck. La pensione sociale viene introdotta solo nel 1969. Né tanto meno ha istituito la cassa integrazione, che fu varata nell’agosto 1947. Mussolini non inventò l’indennità di malattia (fu istituita il 13 maggio 1947 e nel ’68 fu estesa a tutti i lavoratori).
L’autore si sofferma in particolare sulla figura del Duce bonificatore e sul suo apparente successo. Immagine presto divenuta negli anni l’antonomasia delle “cose buone” fatte da Mussolini per il suo popolo. La questione delle paludi fu da subito una straordinaria vetrina di propaganda. Un tema perfetto da sfruttare per la narrativa di regime: «il fascismo, ripercorrendo le orme degli antichi romani, - spiega l’autore - avrebbe riconquistato alla vita il suolo malarico, rendendolo fertile, produttivo e accogliente. Il confronto con l’inettitudine dei governi precedenti sarebbe stato impietoso. In realtà, scorrendo la legislazione del periodo, si vede come il tema, almeno dal punto di vista normativo, era già al centro degli sforzi pubblici prima dell’arrivo di Mussolini al governo: nel solo 1922, prima della marcia su Roma, furono ben venti i regi decreti che si occuparono di allargare le zone di intervento statale su terreni paludosi attraverso la costituzione di consorzi di bonifica sovvenzionati dallo Stato». Le condizioni di guerra avevano portato a una recrudescenza dei casi di malaria e alla perdita di intere zone già bonificate del Veneto e del Friuli, così che quella delle paludi apparve come una vera e propria emergenza sanitaria nazionale del primo dopoguerra. Negli anni venti in Italia erano 8 milioni gli ettari di terra bonificabili con vantaggi per la salute dei cittadini. Anche qui Mussolini non inventò nulla, ma riunificò le molte iniziative già in essere per poi prendersi il merito della loro attuazione. Il testo unico prevedeva la suddivisione in zone di bonifica primaria e secondaria, applicando sulle prime un regime di legge di carattere emergenziale che favoriva l’intervento diretto dello Stato e la concessione di prestiti e sovvenzioni. Il fascismo incontrò notevoli difficoltà, soprattutto a causa dall’opposizione dei grandi latifondisti che possedevano le terre malariche: il sistema di espropri, anche se generoso nei risarcimenti, metteva a rischio il controllo sui loro feudi e rischiava di riempire il territorio di piccoli proprietari indipendenti. Tale tenace opposizione portò alla sospensione dei provvedimenti più ambiziosi e alle conseguenti dimissioni dal governo dell’economista Arrigo Serpieri, che aveva redatto le norme sugli espropri. Quindi, inizialmente quella che la propaganda fascista aveva pomposamente definito «guerra alle acque», ossia la linea di rigido intervento statale, personificata da Serpieri, aveva perso la sua prima battaglia. Il fascismo si scontrò con le resistenze secolari che si opponevano alla bonifica del territorio, e fin da subito parve non avere maggior fortuna rispetto ai governi liberali che lo avevano preceduto. Ma quale fu il vero impatto delle bonifiche rispetto alle aspettative create dal regime? L’analisi dei dati perse la sfida degli 8 milioni di ettari di nuova terra da recuperare alla civiltà. Dopo dieci anni di lavori e denaro pubblico il governo dichiarò di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato, proclamando redenti all’aratro 4 milioni di ettari di terreno. La metà di quanto dichiarato come obiettivo all’inizio della “guerra”. Tuttavia, un risultato comunque di tutto rispetto, se si pensa all’estensione della superficie interessata. Scendendo nei particolari, si evince che nel conto dei 4 milioni erano effettivamente completi o a buon punto solo i lavori su poco più di 2 milioni di ettari. Di questi 2 milioni poi, un milione e mezzo erano bonifiche concluse dai governi precedenti il 1922. Pertanto, spiega l’autore «sui 4 sbandierati, due milioni di ettari non erano altro che lavori in corso d’opera, o immaginati, e un altro milione e mezzo era frutto di bonifiche prefasciste, si può concludere che l’obiettivo di 8 milioni di ettari di terra da redimere fu mancato di ben 7 milioni e mezzo». Renzo De Felice, uno dei maggiori storici italiani a essersi occupato di fascismo, a proposito dell’impegno del governo sul tema delle bonifiche chiarì come «nel complesso, i risultati della bonifica integrale furono inferiori non solo a quanto previsto dall’originario piano di Serpieri (che, non a caso, nel gennaio ’35, dopo aver tentato invano di rilanciarlo, lasciò il sottosegretariato alla bonifica integrale), ma anche alle aspettative suscitate nel paese dal battage propagandistico messo in atto e finirono per non corrispondere all’entità dello sforzo economico sostenuto».
Spesso De Felice, con il quale ho avuto il privilegio di svolgere la mia tesi di laurea, mi ripeteva «i fatti sono assai più eloquenti e persuasivi delle filippiche di certo antifascismo da comizio e di tante schematizzazioni che fanno acqua da tutte le parti». In realtà per difendersi dal rigurgito nostalgico, occorre altro, non attenersi solamente all’oggettività dei fatti storici o, come ha fatto l’autore giustamente, ricontestualizzando i fatti, come nei temi dedicati alle donne, alla corruzione della classe dirigente, alla lotta alla mafia.
Resta la questione: come divenire divulgatori efficaci della storia. Come, soprattutto, fornire ai giovani la passione per gli eventi che ci hanno preceduto, cogliendone la complessità e sapendo nello stesso tempo attrezzarli di un pensiero critico e interpretativo da utilizzare anche e innanzitutto sulla realtà della vita di tutti i giorni, personale e collettiva. E, infine, saper rispondere alla domanda che frequentemente ci viene rivolta dai ragazzi: “A che serve la storia?” E’ una delle sfide educative del futuro.

Antonio Salvati

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