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Italia, una rivolta che si colora di nostalgia ...

Domani si insediano le nuove Camere, per l’avvio di una legislatura che si preannuncia - poi magari saremo smentiti - la più complicata della storia della Repubblica, e forse - ma anche qui, chissà … - la più breve.
Il voto del 4 marzo ha consegnato al Paese una fotografia dei suoi umori politici, ha indicato uno sconfitto principale ed altri secondari, ha incoronato due “non-vincitori” che sembrano molto in sintonia con lo spirito dei tempi, al fianco di uno dei quali sono altri due partiti significativamente premiati in termini di seggi. A margine di queste notazioni numeriche si può registrare la sostanziale fedeltà degli italiani al diritto di voto, ma anche la loro estrema volatilità in termini di scelte, la più alta dal 1992. 

Proprio tale discontinuità ha fatto parlare di ingresso in una Terza Repubblica. Ma sono suggestioni giornalistiche. Tecnicamente siamo ancora nella Prima Repubblica, la Costituzione in vigore è quella del 1948, e il fatto che cambino i nomi dei partiti o le loro percentuali di voto è più che naturale, man mano che scorrono i decenni. Credo abbia ragione Giuseppe De Rita a parlare, per quel che riguarda la società italiana, di “una continuità che non è continuismo mediocre, perché ha dentro di sé una vitalità incredibile”.
Tale vitalità si è espressa negli elementi di apparente discontinuità deposti nelle urne: il “sorpasso” della Lega su Forza Italia, lo sfondamento dei Cinque Stelle al Sud, l’arretramento del PD nelle “zone rosse”. Sono i “cavalli scossi” che corrono liberi - così un efficace Fausto Bertinotti - dopo aver disarcionato i fantini.
Eppure il voto italiano presenta elementi di grande tradizionalismo - ci tornerò alla fine - e si inserisce alla perfezione in un quadro più vasto, diciamo “occidentale”, replicandone - con la nostra specificità, ovviamente, con il riflesso della nostra peculiare antropologia - le tendenze in atto, almeno dalla Brexit in poi.
Commentando nel settembre scorso le elezioni tedesche si citava Lorenzo Monfregola: “Sul piano simbolico il quasi 13% di AfD in Germania vale quanto un 25-30% populista in un altro paese”. E si notava come AfD avesse raccolto consensi, puntando quasi unicamente sul tema migratorio, non solo tra gli strati sociali più deboli della ex DDR, ma anche nel “mondo della borghesia benestante” della Baviera. Un mondo non molto dissimile da quello del nostro Nord più ricco, anch’esso tentato e poi travolto dal rancore di cui ha parlato l’ultimo rapporto CENSIS, anch’esso arrabbiato, anch’esso presunta vittima di una globalizzazione che muta i consueti punti di riferimento.
Non sono i benestanti a reggere meglio l’urto della globalizzazione. Sono piuttosto i cittadini. Nel senso dei residenti nei grandi centri urbani, coloro che gli effetti della trasformazione del pianeta toccano ogni giorno, accettandoli, in fondo, convivendoci, alla fin fine. Ma per chi vive nell’immensa provincia italiana, che non tocca “il parto del nuovo” con mano, bensì attraverso il filtro della televisione o di internet, ecco che esso si colora di nero, e di paura. Come notavamo nel maggio scorso, la vittoria di Macron in Francia segnalava la faglia che divide il voto della campagna da quello delle città: Macron aveva vinto con l’89% nella capitale e il suo peggior risultato, nelle città con più di 100.000 abitanti, era quello di Tolone (56%).
Un’ultima notazione, per concludere, e completare il ragionamento da cui ero partito. Anche qui rifacendomi a quanto si scriveva un anno e mezzo fa a proposito della vittoria di Trump. A quando si sottolineava la forza del richiamo del passato, una pulsione suadente e decisa che finiva per toccare le corde profonde di tanti e convincerli che il mondo d’oggi andava rigettato, che si doveva tornare al buon tempo andato, a quella mitica età dell’oro che la postmodernità aveva incrinato o rubato, ovviando alla perdita di sovranità che comunque il mondo globale e interconnesso comporta. 
Ecco allora gli slogan di Trump, “Make America great again!”. Ecco allora il tradizionalismo e la continuità italiani mettere in scena una grande “operazione nostalgia”, in atto al Sud come al Nord, pur nell’apparente dicotomia delle scelte, per cui il Paese, dopo il biennio Monti e il quinquennio di governi a guida PD, visti come un cedimento al veloce flusso della storia, ha espresso il rimpianto di un buon tempo antico, in cui la legge Fornero non era in vigore, in cui lo Stato “proteggeva” i ceti sociali più deboli con la sua sapiente mano assistenzialista, in cui i confini erano certi e marcati. 
“Certo non è entusiasmante pensare ad una campagna elettorale segnata insieme dal malanimo del rancore e dal languore della nostalgia; e ci sarebbe da augurarsi che ad essi si contrapponesse un più freddo realismo delle cose. Ma il realismo non è un sentimento mobilitante delle masse”, profetizzava De Rita nel luglio dell’anno scorso. 

Francesco De Palma

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